Ricevere il Dono della Vita

A cura del Prof. Mariano Indelicato, Presidente Pronto Soccorso Psicologico-Italia

Ricevere il Dono della Vita

E’ nel donare e ricevere la Vita il perpetuarsi dell’affascinante e, a volte,  tragica vicenda umana

La coppia, la famiglia nascono attorno al Dono della Vita: nasciamo e veniamo educati per diventare genitori, per mettere al mondo figli perpetuando un ciclo ancestrale legato alla conservazione della specie. Vero è anche che il dono del figlio, il dare la vita è il debito contratto più difficile da assumere. Una volta ricevuta la vita, ricevendo i valori che contano, siamo costretti, a nostra volta, a ricambiare donando la vita.

Il Dono, infatti, si inserisce all’interno di un triangolo sacro: “donare, ricevere e ricambiare”. All’interno di questo ciclo si dona nella speranza e nella fiducia di poter essere ricambiati. Per tale motivo i genitori donatori della vita si aspettano di diventare nonni e, quindi, che i loro figli gli regalino dei nipoti.

In Sicilia, terra dove i comportamenti individuali e collettivi si esprimono quasi sempre in maniera melodrammatica, nella classica “fuitina”  i novelli sposi, macchiatisi della colpa di aver contravvenuto alle regole di formazione della coppia in cui la scelta dell’altro/a era di competenza genitoriale, erano costretti a celebrare il matrimonio di nascosto all’alba nelle sacrestie delle Chiese. Al contrario, all’atto della nascita del figlio il battesimo veniva celebrato in Chiesa con la partecipazione di tutta la comunità: si erano riguadagnati il rispetto di tutti “donando la vita”. Non è un caso, ad esempio, che il diritto canonico prevede ancora oggi l’annullamento dell’indissolubilità matrimoniale a fronte della sterilità di uno dei due coniugi. Non è un caso, inoltre, che il non riuscire ad avere figli, a non avere eredi era la causa principale di separazione delle coppie nobiliari.

Risiede nella generatività, infatti, il compimento dell’esplicazione antropologica del Dono attraverso il trasmettere, non solo la vita ma anche beni e status ereditario, e il tramandare valori e regole familiari. Attraverso il Dono della Vita si trasmette il nome, generalmente di uno degli antenati, il cognome perpetuando il ciclo di vita familiare e il senso di appartenenza, non solo ad una famiglia ma, anche, ad un territorio e ad un luogo. Si tramanda l’educazione familiare così come affermato da J. Godbout “Un’educazione riuscita consiste nell’imparare a dare, e a ricevere, senza rimetterci” e ancora “Il piacere che si prova a fare la catena viene di là. Questo modo di fare simboleggia ogni sistema di dono: dare, ricevere, ricambiare”.

Per questo motivo, nella cultura latina il padre (per i romani i figli erano dei padri) veniva indicato come il “beneficium datae vitae”, ovvero colui che fa nascere un legame incondizionato e non risarcibile poiché “le eventuali controprestazioni che quest’ultimo potrebbe erogare a vantaggio del padre dipendono tutte, in ultima analisi, da quel primo beneficio paterno, senza dunque mai poterlo appieno eguagliare” (M. Lentano).

Ciò a significare che il “dare la vita”, il Dono della Vita crea un legame inscindibile fra le generazioni. Non è un caso che i romani all’ingresso delle loro case costruivano l’edicola dei lari e dei penati, di cui si occupava il capofamiglia, offrendo loro quotidianamente il farro (principale cereale coltivato dai romani) e il sale. Il farro per i romani rappresenta le origini, e il sale la conservazione della discendenza per cui il rituale del capofamiglia, sul piano simbolico, non fa altro che ricordare che “la vita è un beneficio che va custodito e conservato lungo l’arco delle generazioni”: la presenza dei lari e dei penati all’interno della casa non fa altro che richiamare il principio del dono della vita. Se viene meno quest’ultima tesi il fare figli, come avvenuto negli ultimi tempi nella società industriale e post industriale, si riduce ad uno sterile utilitarismo, ad un mero calcolo di vantaggi e svantaggi.  

O. Fallaci, in “Lettera a un bambino mai nato”, ci offre una stupenda immagine letteraria del dramma di una donna in carriera che, di fronte al bivio di “dare la vita o negarla”, risponde: “molte donne si chiedono: mettere al mondo un figlio perché? Perché abbia fame, perché abbia freddo, perché venga tradito ed offeso, perché muoia ammazzato dalla guerra o da una malattia?… Forse hanno ragione loro. Ma il niente è da preferirsi al soffrire? Io perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delusioni, i miei strazi, concludo che soffrire sia da preferirsi al niente. E se allargo questo alla vita, al dilemma nascere o non nascere, finisco con l’esclamare che nascere è meglio di non nascere”.

Dare la Vita è il “Dono dei Doni” con profondi significati generazionali, antropologici e filogenetici. Eppure la società capitalistica è riuscita a mettere in crisi, in nome del presunto sviluppo, anche ciò che per millenni non è mai stato messo in discussione.

Se da un alto i genitori donano la vita, dall’altro i figli la ricevono e all’inizio della vita, dal momento del parto, sebbene si esista perché “parte di una relazione” e lo sviluppo dipenda dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento, il soggetto tende differenziarsi dalla madre.

Per la verità questo processo di differenziazione e individuazione inizia sin dal momento del concepimento: durante la meiosi la nuova cellula, anche se contiene le informazioni genetiche delle precedenti, non ne è la loro somma. La nuova cellula è “il primordio di un nuovo individuo”: ecco l’inizio del processo di differenziazione. Il feto, inoltre, che vive in totale simbiosi con la madre e che vede tutti i suoi “desideri” soddisfatti, arriva al punto in cui per conquistare la sua autonomia “decide” di perdere la sua serenità e, quindi, di nascere.

Ricevere la Vita presuppone l’accettazione di un regalo che comporta il riconoscimento dell’altro come diverso da me. Se all’atto della nascita il bambino vive in totale simbiosi con la madre e dipende totalmente da quest’ultima per il soddisfacimento dei suoi bisogni, man mano acquisisce consapevolezza di sé e, in forza di questa nuova immagine d’identità, si predispone al legame con gli altri.

La fusione iniziale madre-bambino, onde evitare una deflagrazione, deve trasformarsi in “una diade in cui ognuno degli attori coinvolti riconosca l’altro come diverso da sé”: il bambino deve riconoscere la madre e, a sua volta, quest’ultima deve riconoscere il figlio. Il riconoscimento reciproco alimenta la speranza e la fiducia nell’altro. Al contrario, il mancato riconoscimento denota l’incapacità del donare e, quindi, crea i presupposti di una mancata accettazione del regalo e, quindi, l’impossibilità a poter ricambiare.

Le madri definite “castranti”, ovvero quelle che vedono il figlio come un eterno bambino anche se è già adulto, e spesso si riferiscono a lui con vezzeggiativi tipici di una relazione infantile, di fatto costringono i figli a non ricevere la vita che, non è semplicemente donare il respiro o il battito del cuore, ma favorire la sua autonomia in modo da infondere fiducia e speranza nelle relazioni con gli altri. E’ stato dimostrato, ad esempio, che soggetti di sesso maschile che durante l’infanzia non hanno avuto un rapporto soddisfacente con la propria madre, nel corso della loro vita hanno mostrato difficoltà ad approcciarsi al femminile.

Il Pronto Soccorso Psicologico-Italia continua a mostrare la sua attenzione al mondo infantile sin dal momento della nascita, ed a rappresentare un importante punto di riferimento a cui potersi rivolgere in qualsiasi momento, al fine di essere supportati nel sollecitare e sostenere i progressi dei propri bambini verso l’autonomia e la costruzione di una propria identità.

I professionisti del PSP-Italia rappresentano un valido aiuto per favorire e sostenere il vitale processo dell’individuazione, affinché il bambino (così come i genitori) assuma la consapevolezza psicologica di essere separato, dando avvio al processo graduale di conquista delle proprie autonomie intrapsichiche.

Prof. Mariano Indelicato, Presidente PSP-Italia