A cura della Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica, Responsabile Settore Comunicazione PSP-Italia
“Dove c’è un bambino ci sono anche delle cure materne che lo tengono in vita” (D. Winnicott)
Il rapporto con le figure genitoriali è di fondamentale importanza nella vita di ogni bambino poiché a partire da esso si formeranno gli “adulti” di domani, e da esso dipenderá la loro crescita psico-fisica e la natura delle loro future relazioni oggettuali.
Per madre e padre non bisogna esclusivamente intendere coloro che generano biologicamente un figlio; piuttosto è bene mettere in risalto anche la loro “funzione simbolica”, che non si esaurisce solamente in quella biologica.
La funzione materna è, per eccellenza, quella deputata all’accoglienza e all’accudimento; appartiene al cosiddetto “polo della cura”, che si affianca ed integra l’altrettanto importante “polo delle regole”, deputato al padre.
Le cure e l’amore materno rappresentano un elemento fondamentale nel percorso di crescita del bambino, esercitando un grande effetto positivo sul suo sviluppo cognitivo, emotivo e sociale; pertanto l’evoluzione della personalità di un individuo non può essere considerata e studiata senza indagare soprattutto l’unicità e la ricchezza della relazione madre-bambino , quale elemento fondativo e costitutivo dell’esperienza umana.
La funzione materna è la funzione di chi “si sintonizza” con il proprio figlio, dedicandosi al soddisfacimento dei suoi bisogni sia concreti (nutrimento e accudimento fisico) che psichici (come l’essere desiderati e amati, ascoltati e compresi).
Il compito primario di un “datore di cure” è, nei primissimi mesi di vita, innanzitutto quello di regolare e stabilizzare i cicli vitali di fame-sazietá e di sonno-veglia; come dice S. Greenspan, occuparsi della cosiddetta “regolazione fisiologica”, del raggiungimento e mantenimento dell’omeostasi.
Il compito di regolare i ritmi vitali, insieme a quello di nutrire, sono affiancati anche da altri comportamenti quali prendere in braccio, cercare di calmare, cullare il proprio figlio, rivolgergli sorrisi, espressioni del viso, parole… Tali comportamenti, definiti “sociali” da D. Stern, sono certamente a servizio di una regolazione fisiologica del bambino, ma implicano soprattutto lo stabilirsi di una “relazione interpersonale” tra madre e figlio, anche in virtù del fatto che i comportamenti messi in atto dall’uno sono contemporaneamente risposta e spunto per i comportamenti dell’altro: anche il piccolo infatti attraverso la sua primissima forma di comunicazione che è il pianto, e successivamente con i propri sguardi e sorrisi, mette in atto dei comportamenti che hanno una natura preminentemente “sociale”, e che sono allo stesso tempo “imput per” e “risposta a” quelli della propria madre.
Quando il bambino è piccolo la madre è dunque principalmente “accuditiva”, e dalle sue cure ed attenzioni dipendono la crescita ed il benessere psico-fisico del proprio figlio. Oltre a ciò la funzione della madre è anche quella di fungere da “contenitore” per le angosce del proprio bambino, e di costituire una “base sicura”, uno spazio di accoglienza e rassicurazione, in cui il figlio possa tornare ogni volta che ne senta la necessità, per ritrovare conforto o sostegno.
Questo poiché nella maternitá vi è la presenza di due aspetti apparentemente contrastanti: l’accoglienza della vita e il “dover lasciar andare”, ad un certo punto, questa stessa vita: insegnare pian piano al proprio figlio ad andarsene via, aiutandolo a camminare con le proprie gambe ed a mollare la presa della mano materna, affinché poter andare incontro al mondo.
Ad un certo punto del percorso di crescita infatti gli equilibri dovrebbero cambiare, e l’ago della bilancia dovrebbe spostarsi dal polo delle cure verso il “polo dell’autonomia”, sia fisica che psichica: la madre, garantendo comunque la propria presenza, dovrebbe fare un passo indietro e permettere cosí l’avvio di un cammino che condurrá ad un funzionamento sempre più autonomo del proprio bambino, che comincerà così a cercare una “giusta distanza” dalla madre, per ottenere nel tempo una propria individualità definita.
Ciò é quello che rappresenterebbe una funzione materna non patologica: “un’ Ospitalità del proprio figlio, senza la Proprietà dello stesso” (M. Recalcati), che si realizza e manifesta attraverso l’incentivo all’indipendenza e all’autonomia; nel caso opposto si verificherebbe invece una completa fusione madre-bambino, con la conseguente mancanza della formazione di un’identità autonoma del figlio.
A questo proposito le teorie cliniche dominanti presentano il bambino in origine come un essere “indifferenziato”, che può giungere a differenziare il sé e l’altro solo dopo un lungo e lento processo di separazione della madre e di propria “individuazione“.
La promozione di uno sviluppo infantile positivo, come sostenuto dalla psicoterapeuta M. Mahler, passa attraverso “l’incentivare e l’assecondare le due tendenze principali, innate ed operanti sin dall’inizio della vita del bambino: la spinta alla separazione dalla madre, e la spinta ad individuarsi come persona dotata di caratteristiche proprie”.
Le madri che invece si sacrificano totalmente per la vita del figlio tendono ad inglobarne l’esistenza, come in una “eterna gravidanza”, soffocandone la legittima necessità di autonomia. In questi casi si è di fronte alla figura di “una madre che fagocita, con le fauci aperte, la vita della propria progenitura” non permettendo così il fondamentale processo di differenziazione ed individuazione; quelle che J. Lacan chiama madri-coccodrillo, dove la madre annulla la donna.
Ecco perché si può sostenere che le madri sono sempre, in un modo o nell’altro, in “precario equilibrio” tra l’essere troppo poco e l’essere troppo, in bilico tra presenza e giusta distanza, tra cura/accudimento e promozione dell’autonomia del proprio figlio.
Come sostiene E. M. Forster, “Una madre ha due doveri: preoccuparsi ed evitare di farlo”. È un confronto/scontro tra i bisogni della madre e quelli del figlio, dove la figura femminile cammina continuamente in bilico tra l’essere mamma e l’essere donna; ma gli equilibri sono complessi e talvolta un’area incombe sull’altra con il rischio di fagocitarla.
Perché se da un lato vi è la madre-coccodrillo, che soffoca e schiaccia il figlio e il suo desiderio, all’estremità opposta vi è la “madre narcisistica” che, reduce dalla lotta per l’emancipazione da una versione solo cannibalica del suo ruolo, si ritrova nell’ipermodernitá a vivere spesso la maternità come un “handicap” alla propria affermazione sociale. É l’altra faccia del trattenere presso di sè e del divorare: è piuttosto distrazione ed indifferenza affettiva nei confronti del proprio figlio, vissuto come un “ingombro” ed un “ostacolo” alla propria realizzazione, come un “corpo estraneo rispetto all’idealizzazione della propria immagine di donna”, da “rigettare” perché troppo occupata a perseguire il successo nel lavoro o le relazioni personali; in questi casi è la donna che finisce per annullare la madre.
É chiaro come la situazione ideale sia rappresentata dall'”integrazione” di queste due anime del femminile, della donna e della madre, poiché l’esistere dell’una senza l’altra comporterebbe uno sbilanciamento verso una delle due estremità, con delle conseguenze spesso anche tragiche; solo una “convivenza dinamica” delle due funzioni permetterebbe un idoneo processo di filiazione e di umanizzazione della vita.
I due poli della funzione materna, quello dell’accudimento e delle cure e quello della promozione dell’indipendenza del figlio, rappresentano due presupposti fondamentali affinché il bambino possa soddisfare i propri bisogni di accoglimento e contenimento ed, al contempo, anche i propri bisogni di auto-affermazione e autonomia.
L’importanza del mantenimento di un giusto equilibrio tra queste due dinamiche della maternitá va ad affiancarsi all’importanza di un altro equilibrio, che può essere raggiunto e garantito solo dalla compresenza delle due funzioni genitoriali, quella materna e quella paterna: nella serrata diade madre-bambino ad un certo punto occorre l’intervento del padre, che con la sua funzione di “normatore ed emancipatore” rappresenta il bastone che va messo tra le fauci del coccodrillo per impedire che il proprio figlio venga completamente assorbito dal materno; è colui che “porta fuori”, alla scoperta del mondo, esortando il bambino a non rimanere perennemente imbrigliato nella rassicurante dimensione di accoglienza e protezione tipicamente materna, ed aiutandolo ad emanciparsi dalla condizione di dipendenza dalla madre.
…Sebbene però non debba essere solo il padre ad evitare la morte matricida del figlio, in quanto occorre che la madre stessa, a sua volta, non dimentichi mai di essere anche “donna”, manifestando un legittimo e vitale desiderio che vada “al di là della maternità”, permettendo così al proprio figlio di essere lasciato libero di sperimentarsi e di scoprirsi.
Solo così la madre potrà ricoprire in maniera idonea e funzionale il proprio ruolo insostituibile e primario nello sviluppo del proprio figlio, fornendo a quest’ultimo gli strumenti necessari per seguire l’evoluzione e la maturazione cui egli è geneticamente predisposto, e favorendo così le condizioni necessarie ad una sua sana crescita fisica e soprattutto psicologica.
Il Pronto Soccorso Psicologico-Italia e la sua equipe a sostegno e supporto di una figura materna che non abbia paura di continuare ad essere anche “donna”, senza fare del proprio figlio l’unico centro di interesse, permettendogli di staccarsi gradualmente da lei e salvandolo così da una condizione di completa simbiosi e fusione.
…Perché in fondo i figli hanno bisogno della presenza delle madri, ma anche della loro “assenza”: essere un po’ abbandonati per poter sperimentare la libertà!
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