A cura del Prof. Mariano Indelicato, Presidente Pronto Soccorso Psicologico-Italia
Il figlicidio “è una caratteristica della specie umana che si ritrova in tutti i gruppi sociali e in tutte le culture, primitive e attuali, e che si traduce in varie modalità di comportamento che vanno dal sacrificio vero e proprio dei bambini (che sembra scomparso dalla nostra cultura) alle forme più raffinate, ma non meno violente, di oppressione dell’infanzia… che sembrano più caratteristiche della nostra cultura” (Rascovsky)
La morte per mano della madre della piccola Elena riporta tristemente in auge un tema che sembrava scomparso dalla nostra cultura, ovvero il figlicidio.
La letteratura riporta che dietro un gesto apparentemente insano si nascondono una molteplicità di cause che vanno dalla malattia psichiatrica a veri e propri disagi relazionali. E’ difficile immaginare una mamma che uccide il proprio figlio, in quanto l’amore materno viene visto come un diritto assoluto, come il massimo amore possibile, dove la possibilità delittuosa diventa sempre più improbabile ma, allo stesso tempo, quando ciò si verifica, l’interesse comune è tale per cui non ci si ferma neanche di fronte a scenari più macabri come il figlicidio.
La madre ha in sé un potere senza confini, di vita e di morte: è lei che decide chi può nascere e sceglie come farlo vivere. La volontà del bambino diventa inutile, perché è già definita, segnata, organizzata, suggestionata da ogni cosa che dice o non dice, che fa o non fa la sua mamma. Tale “onnipotenza originaria” di decisione determina una madre buona o cattiva.
Sì, perché se tutte le mamme del mondo fossero buone non ci sarebbero milioni di figli infelici, maltrattati, abbandonati, venduti e prostituiti, feriti a vita e uccisi. Purtroppo esistono mamme cattive, mamme che non amano e che non riescono a coltivare amore, che non vogliono riconoscere il proprio figlio e non lo rispettano, soffocandone le potenzialità e coltivando un’estensione di sé.
Esistono differenti modalità con cui una mamma può essere, o diventare, cattiva e quanto dolore e quanta distruzione può produrre, spesso in modo irreversibile, nella vita di un figlio fino ad ucciderlo. D. Winnicot descrive la madre sufficientemente buona che è quella madre che sa regredire, diventare piccola come il suo bambino, per sintonizzarsi meglio su di lui, sul suo mondo interno e sui suoi bisogni. Essa permette al bambino di esprimere le sue angosce, le tollera e le contiene senza angosciarsi a sua volta: in questo modo lei restituisce al figlio le emozioni di lui, filtrate dal contenimento e bonificate.
Al contrario, esistono le madri castranti che hanno bisogno che il figlio segua la loro visione del mondo e delle cose: hanno già in mente tutto il loro futuro dispiegato in un attimo, sono costantemente in ansia, anche se il figlio sta semplicemente facendo il suo mestiere di figlio, ovvero esprimere la sua turbolenza infantile, fare dispetti, disubbidire. Le sfumature possono andare dalla freddezza della madre-soldato, alla fusionalità della madre simbiotica, ma in ogni caso abbiamo a che fare con relazioni malate e disfunzionali.
La madre simbiotica, in particolare, ha bisogno del contatto fisico con il figlio: gli piace stropicciarlo, baciarlo, averlo per sé. Ma un contatto così esasperato non è mai un reale istinto di donazione: è un modo per fagocitare, prendere, succhiare l’anima del figlio per farla tutta sua. Per tale motivo nel caso della piccola Elena non ci deve impressionare, come una contraddizione, la scena della mamma che poco prima di ucciderla, nel riprenderla a scuola, l’abbraccia e la bacia. Come non ci devono impressionare i racconti delle compagne di Università della mamma sull’orgoglio che quest’ultima mostrava facendo vedere le foto della figlia: è un suo oggetto di cui può disporre a suo piacimento. E’ lei la padrona della vita e della morte della figlia. La relazione apparentemente d’amore è incentrata esclusivamente sul soddisfacimento di esigenze di carattere narcisistico. Quest’ultime tendono al possesso dell’altro in contrapposizione al mancato possesso dell’amore materno.
Generalmente dietro l’instaurarsi di una tale personalità vi sono esperienze di abbandono infantile che comportano relazioni tese al non riconoscimento delle esigenze dell’altro. Se volessimo sintetizzare, il bambino piccolo piange e si dispera non appena la madre si allontana sperimentando l’angoscia da separazione. La perdita della persona che ci accudisce rappresenta un lutto ed è vissuta come una grave minaccia alla propria esistenza, un’amputazione di una parte di sé. Spesso si accompagna alla percezione di non poter sopravvivere senza l’altro e a una visione catastrofica della vita e del mondo. Le esperienze di perdita e di abbandono nell’adulto possono rievocare antiche ferite, facendo riaffiorare costellazioni di angosce primitive, mai metabolizzate, confermando le aspettative di tradimento, inaffidabilità da parte dell’altro e un’immagine di sé come vulnerabile, destinato a essere ferito, rifiutato nei rapporti. La separazione diventa non solo perdita dell’altro ma anche perdita di sé, come persona degna di amore. Il mondo diventa improvvisamente un deserto privo di senso, dove niente è stabile e ogni rapporto intimo porta con sé il fantasma dell’abbandono e del dolore insostenibile che comporta.
Dai resoconti giornalistici è quello che accade alla mamma della piccola Elena la quale sentendosi abbandonata dal proprio partner, che si costruisce una nuova storia d’amore dopo la loro separazione, uccide “l’oggetto” del loro amore come una novella Medea. Inoltre, le modalità adottate per l’uccisione e occultamento del cadavere sono metafora del processo emotivo e psichico sottostante: vuol far provare lo stesso dolore di perdita che prova lei per essere stata abbandonata dal partner. “Non solo la uccido ma occulto il cadavere e simulo il rapimento”: un modo per farla sparire per sempre, per chiudere definitivamente un capitolo della sua storia personale.
Nel mito di Medea l’uccisione dei figli costituisce la rottura della linea generazionale, della trasmissione ereditaria di beni e di status, del tramandare la storia familiare. Nel mondo animale questi comportamenti, anche se spesso attuate dai maschi, sono frequenti. Nei leoni Phantera Leo, quando un maschio prende il controllo del gruppo, uccide i piccoli in modo che le femmine rimaste senza cuccioli possono riaccoppiarsi con lui. Lo stesso avviene in altre specie animali. Questo comportamento, che spesso è stato spiegato semplicemente con esigenze di carattere sessuale, riguarda, al contrario, la trasmissione del patrimonio genetico.
F. Pirrone nel libro “Un’etologa in famiglia. Genitori, figli e parenti scomodi nel regno animale” mette in risalto che l’interesse di un individuo, anche di una madre, ai fini del successo riproduttivo, può coincidere addirittura con l’uccisione o con il rifiuto della prole, eventi che in natura convergono verso uno stesso esito: la morte.
Nei topi, le madri di nidiate numerose uccidono i piccoli più deboli, per garantire la sopravvivenza degli altri. In cattività, poi, se il topo maschio di un territorio viene rimpiazzato da un soggetto più dominante, la femmina già gravida abortisce volontariamente per potersi accoppiare subito con il nuovo maschio.
E’ all’interno di questi complessi processi che sedimentano all’interno dell’inconscio collettivo (in senso junghiano), o individuale, (secondo Freud), che vanno ricercate le risposte ai figlicidi che sono molto più numerosi di quello che normalmente si pensa, tant’è che negli ultimi anno sono stati circa 480.
La morte della piccola Elena si inserisce in questo drammatico quadro che arma la mano di una mamma ai fini dell’interruzione della linea generazionale che è guidata dalla spinta pulsionale di Eros e, quindi, dalla vita. Il non riconoscersi più all’interno di una storia familiare, quella dell’ex compagno, la porta a sopprimere, sotto l’influsso dell’istinto di morte, la figlia.
Affrontare il figlicidio è molto complesso ed esiste un’ampia letteratura a riguardo, ma vale la pena, se non altro, porre una maggiore attenzione sulle caratteristiche che spingono una “mamma cattiva” a compiere un simile gesto, che vanno dallo scenario socio-culturale a quello psicodinamico e/o psicopatologico personale, e sulle relative conseguenze psicologiche e giuridiche per la madre che compie il reato.
Il Pronto Soccorso Psicologico-Italia nasce in funzione dell’accessibilità per soggetti con grande fragilità come la mamma della piccola Elena, e può costituire una barriera efficace per prevenire episodi come quello che la cronaca giudiziaria racconta in questi giorni.
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