A cura della Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica, Responsabile Settore Comunicazione PSP-Italia
“Mentre facevo un’escursione in Sierra Nevada, guardai le montagne e meditai: le persone sono come queste montagne, le loro strutture psicologiche devono cambiare lentamente tanto quanto cambiano le montagne attraverso la graduale erosione del vento e della pioggia. In quel momento girai l’angolo e trovai il percorso bloccato: era stato coperto da un enorme valanga durante quell’inverno. Tutto l’aspetto della montagna era stato trasformato in pochi secondi” (Robert Rosenbaum)
I Servizi di Salute Mentale come il Pronto Soccorso Psicologico, garantendo una possibilità di accesso diretto tramite walk-in, sono in grado di fornire il proprio intervento nel “momento più significativo” per il paziente, aggirando gli ostacoli dei lunghi tempi di attesa del settore (soprattutto) pubblico, che generano spesso frustrazione.
Ciò consente agli specialisti di questi Servizi di incontrare e lavorare con soggetti fortemente motivati; il ché è molto gratificante, in quanto la volontà di cambiamento del paziente della propria condizione in essere rappresenta un importante elemento associato al raggiungimento di esiti positivi in psicoterapia.
Ma ciò che è altresì rilevante è che l’esistenza di Servizi come il Pronto Soccorso Psicologico trasmettono un importante messaggio: “la psicoterapia non deve necessariamente essere un processo lungo ed interminabile che va avanti per mesi o anni; l’assistenza psicologica può essere accessibile nell’immediato e mostrarsi risolutiva anche in uno o pochi incontri”.
A questo proposito bisogna fare riferimento ad un interrogativo molto frequente che diverse parti si sono posti e continuano a porsi (dai pazienti agli stessi terapeuti): “quanto tempo è necessario per produrre il cambiamento”?
Si vuole ricordare che quest’ultimo, in tutti gli interventi psicologici, è la “parola chiave” ai fini dell’efficacia: qualsiasi progetto terapeutico, di qualsiasi durata, se non è rivolto al cambiamento, non avrebbe senso. D’altronde il paziente chiede aiuto proprio al fine di uscire da una condizione di disagio che è in essere, e ciò diviene possibile solo se avviene un “cambiamento di stato”.
Prendendo in prestito una definizione di K. Tomm, così come riportato da D. Romaioli, servizi come il Pronto Soccorso Psicologico propongono, come priorità terapeutica, quella di “modificare le coordinate simboliche che sostengono l’azione considerata disfunzionale in itinere, in modo tale da evocare scenari o versioni di sè meglio adatte a riconfigurarla” […] “i comportamenti e le narrazioni vissute come problematiche possono essere pertanto decostruite e ricostruite in relazione a nuovi pattern di interazione, efficaci nel produrre una forma di vita alternativa che si dimostri più funzionale all’adattamento contestuale dei soggetti”.
Alla domanda sul tempo necessario per produrre il cambiamento si potrebbe rispondere “quanto basta”, intendendo che realtà come quella del Pronto Soccorso Psicologico lavorano nel “qui ed ora”, non precludendosi, allo stesso tempo, eventuali altre configurazioni di intervento che potrebbero comprendere anche più incontri (sebbene potrebbe non venire garantita la continuità dei percorsi terapeutici con gli stessi specialisti).
Vi è la possibilità che il cambiamento si possa verificare anche in un unico incontro; ciò facendo leva anche e soprattutto sulla forte motivazione al cambiamento di un soggetto che vuole e riesce ad intervenire nel momento per lui “più significativo”, ossia quando è mosso da un “senso di urgenza” che lo porta a sentire che non è più tempo di esitare, quando è intenzionato a mettere in atto azioni orientate alla modifica della sua condizione di disagio in essere.
Il “qui ed ora” è il tempo dell’intervento che spesso si dimostra sufficiente in quanto il cambiamento avviene nell’ambito di una “relazione terapeutica” che si può realizzare anche in un’unica seduta: i risultati migliori d’altronde si ottengono quando ogni singolo intervento è “adattato” all’individuo e al suo contesto personale familiare e storico-culturale, e una terapia efficace avviene all’interno di un contesto di competenza in cui gli obiettivi e le risorse il paziente vengono uniti attraverso l'”alleanza terapeutica”.
Ci si chiede come sia possibile che in un singolo incontro si possa verificare un cambiamento positivo e duraturo, in alcuni casi anche rispetto a problemi di vecchia data e gravi. A volte però basta davvero poco o, comunque, meno di quanto si pensi. La persona in emergenza psicologica necessita di essere rassicurata, validata, supportata e guidata nel raggiungimento di quello che sente essere il proprio “obiettivo”; nel far ciò bisogna considerare che i bisogni e la percezione dei successi che si spera di ottenere sono “strettamente soggettivi”: per alcuni pazienti un risultato positivo può essere quello di sapere che qualcuno li ha ascoltati offrendo sostegno alla loro storia; altri possono andare via con un nuovo modo di pensare riguardo ad un problema, e ciò rappresenta l’inizio di una nuova storia; in altri casi questo nuovo modo di pensare riguardo ad un problema può far decidere ad alcuni pazienti che la situazione originaria non era così problematica, dopo tutto. Alcuni pazienti vanno via con un compito specifico: un nuovo modo di approcciarsi alla situazione problematica.
Dunque quando un paziente si sente incoraggiato e responsabilizzato, un piccolo cambiamento positivo nel modo in cui costruisce sè stesso e la propria esperienza spesso porta a cambiamenti più grandi.
L’accesso ad un Servizio di Pronto Soccorso Psicologico rappresenta un semplice primo passo -ma decisivo- verso il cambiamento, che potrà essere raggiunto attraverso percorsi personalizzati di cura, a seconda delle esigenze dello specifico soggetto.
“Anche se il soggetto viene visto per un singolo colloquio, questo deve essere un’esperienza terapeutica, un’occasione per incoraggiarlo ad aprire gli occhi e mostrargli dove guardare. […] l’intervento diventa così un risveglio, una stimolazione della mente e dello spirito e, si spera, un esperienza emotiva correttiva” (K. Lewin).
Inoltre, tutte le forme di terapia breve o singola condividono la stessa fiducia che una volta che una persona ha fatto un cambiamento, questo possa venire amplificato e rinforzato dalle esperienze successive della vita, in modo che ci sia una “cascata positiva di reazioni a catena” (J. Haley). “Un piccolo cambiamento conduce inevitabilmente ad uno più grande”e “se si vuole un grande cambiamento bisogna chiederne uno piccolo”(M.H. Erickson).
Ancora, a seconda degli obiettivi del paziente, l’intenzione può essere quella di “ottenere cambiamenti positivi per affrontare meglio le stesse cose, e/o ottenere cambiamenti delle regole che governano l’organizzazione del sistema e le modalità di interazioni indesiderate” (w O’Hanlon).
Con la guida del terapeuta il paziente viene incoraggiato a “fare una mossa” per uscire dalla trappola di comportamenti dolorosi che si ripetono ciclicamente, facendo una cosa in modo diverso (J. Gustafson).
È fondamentale però “aspettarsi” che qualche tipo di cambiamento benefico (nel pensare, nel sentire, nel comportarsi) sia possibile “ora”. A questo proposito vi è tutta una mole di studi sulla Terapia a Seduta Singola (TSS) che, generalizzando, indicano che “la maggiore efficacia in psicoterapia si ottiene tra il primo e il terzo incontro, e che studi di follow-up su pazienti che avevano mostrato un drop out terapeutico evidenziano quanto quest’ultimi fossero stati in realtà soddisfatti dalla prima seduta, che aveva risposto perfettamente alle loro richieste ed esigenze terapeutiche”.
Questo perché il cambiamento avviene all’interno di un’interazione quale la “relazione terapeutica” che che viene considerata un “fattore aspecifico di esito terapeutico”, indipendentemente dalla durata del trattamento o dell’approccio di intervento seguito, e che si oggettivizza nel tempo presente dell’incontro tra paziente e clinico.
Volendo riprendere una definizione sul tempo di Sant’Agostino nel libro XI delle Confessioni: “il presente é memoria del passato ed attesa del futuro”. Quindi, sostanzialmente, il passato non esiste in quanto non è più, ed il futuro non esiste in quanto non è ancora; è solo e il “qui ed ora” che dá significazione all’esperienza.
E. Dogen, a supporto di un approccio singolo, sosteneva: “Poiché non esiste niente oltre questo momento, l’essere-tempo è tutto il tempo che c’è. Ogni momento è tutto essere, è il mondo intero”; R. Rosenbaum sosteneva a sua volta che “la terapia non ha luogo nel tempo segnato da un orologio, ma nell’essere-tempo. il tempo psicologico ha una sua realtà, con i suoi ritmi e la sua durata distinti. E la terapia che si svolge nel tempo dell’essere non è né corta ne lunga”. “Ciò che conta è che paziente e terapeuta apportino, in maniera collaborativa, le loro particolari doti personali e capacità, da applicare al presente” (M. F. Hoyt, M.Talmon).
L’intervento di Pronto Soccorso Psicologico si svolge quindi nel “qui ed ora” e permette il verificarsi (o anche solo l’avviarsi) di quel cambiamento di cui pazienti hanno bisogno in quel preciso momento della loro vita, affinché poter modificare una situazione di disagio diventata non più gestibile nè sopportabile. Se nonostante ciò i pazienti dovessero ritenere necessari degli ulteriori incontri sarà per essi possibile effettuare nuovamente l’accesso al Servizio.
Così come sosteneva ancora R. Rosenbaum, il desiderio di uno specialista che opera in questa tipologia di Servizi di Salute Mentale, “non dovrebbe essere quello di vedere tutti per un’unica seduta, ma quello di vedere tutti per un unico momento completo, lungo quanto serve”.
Anche se il singolo intervento potrà o non potrà rivelarsi sufficiente, ciò che conta è voler includere all’interno del proprio lavoro di clinico la possibilità di poter essere utili ai pazienti in diversi modi, anche in un solo incontro, e quindi apprendere i metodi che consentono di farlo nel migliore dei modi. L'”integrazione” corretta di qualsiasi nuova pratica non è sempre semplice, ma quando gli approcci in questione non devono sostituire i modelli terapeutici già utilizzati, allora la situazione si facilita.
Nelle realtà che accolgono un “modello sociale” di Salute e che sostengono la filosofia della cura guidata dai pazienti e soprattutto “centrata” su di essi, gli approcci di seduta singola (o comunque brevi), quando concettualizzati come un modello di erogazione di un servizio, sono relativamente semplici da integrare. Specialmente in quanto non si tenta di sostituire modelli di pratiche esistenti, ma di affiancarli ad essi.
Inoltre, affinché ciò possa avvenire in maniera ancora più semplificata, per l’integrazione serve un “fondamento logico” che si adatti ai valori fondamentali della propria pratica clinica:
aumento dell’accessibilità ai servizi salute mentale;
promozione dell’autodeterminazione del paziente;
adozione di un’ottica collaborativa paziente-terapeuta. Qualità queste rese tutte possibili dall’approccio breve e/o di seduta singola, e che verranno accolte senza troppo difficoltà nell’esercizio della propria professione.
Allo stesso tempo, ed a prescindere da tutto, il considerare un intervento completo ed intero permette di tirare fuori da ogni singolo incontro tutto il potenziale possibile. Si vuole citare a tal proposito il caso di una terapeuta formata in TSS, riportato in Cannistrà F., e Piccirilli F. (“Terapia a Seduta Singola, principi e pratiche”, 2018): Una collega ci chiama per chiederci un contatto in un Paese di un altro continente in quanto un paziente che seguiva da un paio di anni stava per trasferirsi lì. Dopo averglielo dato, la collega programmò un ultimo incontro con il proprio paziente per fare il punto della situazione. Giorni dopo, subito dopo la seduta, la collega ci chiamò sbalordita: “È incredibile! La certezza che non ci sarebbe stato un incontro successivo ha completamente cambiato l’atteggiamento che il paziente ed io avevamo verso la seduta. In un’ora abbiamo ottenuto uno sblocco mai raggiunto in due anni!”
Ciò appare un’eccellente esemplificazione di cosa significhi adottare un “mindset a seduta singola”. Nel momento in cui la terapeuta si trova costretta a fare un’ultima seduta, si pone per la prima volta in un modo totalmente diverso, e una “nuova prospettiva delle cose” porta ad uno “sblocco” insperato.
É proprio questo uno dei motivi per cui, indipendentemente da tutto il resto, conviene sempre porsi “come se” quell’ intervento psicologico che si sta conducendo dovesse essere l’unico, l’ultimo, lavorando per migliorare l’utilità di ogni singola seduta.
Trattare la prima seduta “come se possa essere anche l’ultima”, e far sì che possa essere utile per il paziente anche se dovesse rimanere l’unica, induce un numero di risposte cliniche che nella loro essenza non sono altro che tentativi di “sfruttare al massimo ogni incontro”.
L’atteggiamento di sfruttare al meglio ogni incontro dovrebbe portare il terapeuta ed il paziente a “co-progettare” l’intervento, dando così luogo ad una maggiore trasparenza riguardo al processo della terapia e ad un contesto di franchezza reciproca. In altri termini “si determina una consapevolezza reciproca in merito al fatto che non c’è tempo a sufficienza per essere indiretti, in modo che ciascuna parte possa sfruttare al meglio il tempo che ha a disposizione” (Young).
Gli elementi di co-progettazione, trasparenza e franchezza reciproca tendono a promuovere una maggiore autenticità tra terapeuta e paziente, ed il tempo limitato induce in entrambe le parti un atteggiamento di tipo “mettiamoci a lavoro e vediamo che cosa succede”.
Alcuni esponenti dell’approccio singolo hanno concettualizzato questo atteggiamento in termini di “vivere il momento presente” e “cogliere il momento”, accettando il fatto che tutto ciò che si ha a disposizione è la durata di quell’unico incontro (A. Silve, M. Bobele R. Rosenbaum, M. F. Hoyt, M. Talmon et all).
Un atteggiamento a seduta singola, se accolto del terapeuta e comunicato al paziente, può aiutare a generare un contesto adeguato per affrontare le principali preoccupazioni di una persona con una modalità diretta ed efficiente.
..D’altronde il come si guarda influenza quello che si vede, e quello che si vede influenza ciò che si fa (M. F. Hoyt).
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