A cura della Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica, Responsabile Settore Comunicazione Pronto Soccorso Psicologico-Italia.
“Si hanno due vite. La seconda comincia il giorno in cui ci si rende conto che non se ne ha che una”. (Confucio)
Il termine Diagnosi deriva dal greco δια γιγνώσκω, e vuol dire “riconoscere attraverso”. In campo medico, viene definita come quel “giudizio clinico che consiste nel riconoscere una condizione presente in un paziente“.
Essa serve dunque ad individuare una determinata malattia in base a dei “sintomi” che caratterizzano il cosiddetto “quadro clinico”: nascendo da una serie di “ipotesi diagnostiche preliminari”, il percorso di verifica consiste nella raccolta di un certo numero di elementi ed informazioni utili all’isolamento della “diagnosi vera” dall’insieme delle diagnosi solo possibili.
Di norma, una volta raggiunta la “certezza” di una diagnosi (sebbene, in alcuni casi, i confini di quest’ultima potrebbero anche non essere cosí stabilmente netti), è possibile stabilire se quella malattia è curabile o meno, e con quale eventuale tipo di terapia.
Purtroppo non tutte le malattie hanno esiti positivi, e scoprirsi affetti da una malattia con prognosi infausta spesso obbliga a doversi ricostruire una “nuova identità personale”, che riguarda non solo gli aspetti cognitivi relativi alla conoscenza della malattia e alle strategie da adottare a livello delle cure, ma che comprende anche e soprattutto l’inizio di un percorso caratterizzato da un “tumulto emotivo”, in cui si attivano le reazioni piú forti quali senso di smarrimento e disorientamento, confusione ed incertezza sul proprio avvenire, perdita di controllo, impotenza, paura, dolore ed in cui vissuti, delusioni, speranze, sentimenti di diversa entità si mescolano con grande intensità, scombussolando e destabilizzando il soggetto interessato dalla diagnosi infausta che, quasi sempre, si ritrova impreparato a gestirli.
In questo vortice emotivo vengono inevitabilmente trascinati anche i familiari, in base all’assunto secondo il quale “la famiglia vista come un insieme, può configurarsi come vittima indiretta, per l’esistenza dei vincoli che la legano al membro che sta sperimentando la sofferenza”, (Dalage).
La famiglia fornisce il contesto di adattamento in cui la persona reagisce alla diagnosi e valuta l’evento e le proprie capacità di farvi fronte; il tutto in relazione ai significati di cui quella famiglia è portatrice, che vengono appresi e trasmessi per via trans-generazionale. I familiari ricoprono la funzione di “caregiver” che risponde ai bisogni del paziente sia sul fronte delle cure che su quello emotivo.
Assumendo una prospettiva sistemico-relazionale è possibile affermare che i vissuti psicologici ed emotivi e le dinamiche relazionali dei membri della famiglia influenzano l’intero sistema familiare, decretando anche l’adattamento alla malattia, alla sofferenza, ai trattamenti, alle ripetute ospedalizzazioni. I membri della famiglia acquisiscono delle nuove consapevolezze circa la precarietà e la possibile dissolubilità dei propri legami, ed inoltre spesso si instaurano delle diverse modalità di comunicazione e di interazione all’interno dei diversi sottosistemi, nonché delle modificazioni nella distribuzione delle funzioni dei ruoli familiari.
Il sistema familiare nel corso di questo periodo sperimenta anche delle intense dinamiche emotive e nell’affrontare la malattia ogni membro struttura dei difficili ed articolati vissuti psicologici (Gritti, Di Caprio, Resicato).
Con l’avanzare della malattia, la famiglia può incrementare l’utilizzo di meccanismi di difesa creando uno stato totale di “indifferenziazione” dove l’eccessiva fusionalità impedisce di scorgere i confini individuali; è importante rilevare però come l’adozione di questi meccanismi di difesa da parte della famiglia sia un processo sano nell’ambito di una situazione così complessa è infausta.
La comunicazione della diagnosi è dunque il momento in cui ha inizio una condivisione di sentimenti tra tutti i soggetti coinvolti, da chi la fa, a chi la riceve ed ai suoi familiari: soprattutto in questi ultimi predominano dolore, disperazione, angoscia. Ecco perché é assolutamente opportuno che le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste debbano essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere mai elementi di speranza e di scelta.
E. Kuebler Ross, considerata la fondatrice della psicotanatologia (che si occupa di sostegno psicologico in caso di malattie terminali, attraverso un lavoro di accompagnamento alla morte ed elaborazione del lutto come supporto al moribondo e ai suoi congiunti), sostiene che la ricezione di una diagnosi infausta comporta il passaggio attraverso cinque probabili fasi: shock/rifiuto, rabbia/collera, senso di smarrimento, il “venire ai patti”, e la famosa “resilienza”, ossia la fase finale che è l’accettazione.
Naturalmente sarebbe necessario che il soggetto interessato da una disgrazia del genere venga seguito, soprattutto da un punto di vista psicologico, in tutti questi momenti, e non venga lasciato mai solo (aiutando anche i familiari che più o meno avranno gli stessi sentimenti e le stesse emozioni).
Volendo infatti esaminare più da vicino l’impatto che una patologia grave ed inguaribile ha sul malato, si può rilevare come questa condizione imponga sin da subito una “frattura” tra un prima ed un dopo, che costringe innanzitutto a separarsi da un ideale di corpo sano ed efficiente che fino a prima della patologia si riusciva ad incarnare e che ormai non esiste più, dal momento in cui ha dovuto lasciare il posto alle limitazioni imposte dal quadro clinico e alle paure fondamentali ad esso connesse: solitudine, isolamento, angoscia, mutilazioni, menomazioni, dolore fisico e psichico.
La verità diagnostica comporta cosí tutta una serie di perdite, prima tra tutte la perdita dello stato di salute precedente alla malattia. Potrebbe anche comportare cure pesanti con effetti collaterali e, nel caso di una patologia inguaribile, una crescente disabilità, la perdita della libertà, e della dignità a causa di eventuali trattamenti aggressivi e invasivi, e talvolta il presentimento di una morte vicina.
Ecco che allora, in questi casi, un supporto di natura psicologica, sia ai diretti interessati che ai familiari coinvolti indirettamente nella situazione, sarebbe opportuno ed a volte persino indispensabile affinché poter offrire l’assicurazione di un sostegno professionale; Randall e Downie parlano a questo proposito di “farsi compagni fidati di viaggio”.
Sulla stessa scia C. Gilligan elabora una teoria etica che sostiene “l’importanza morale della relazione interpersonale e la responsabilità della cura altrui a livello soprattutto emotivo”, accettando che il soggetto interessato da prognosi infausta appaia, almeno inizialmente, inevitabilmente sconvolto dalla notizia, e rispettando sempre il valore e l’individualità della sua persona: i comportamenti agiti di fronte alla malattia sono infatti dipendenti dalle caratteristiche di personalità che determinano l’unicità di ogni essere umano, e che condizionano sia le difese psicologiche personali sia il modo di relazionarsi con le persone che si hanno accanto.
Gli specialisti del settore della Salute mentale, tra cui gli operatori del Pronto Soccorso Psicologico-Italia, sono consapevoli che qualunque sia la malattia che colpisce la persona che si ha davanti, la “mission” è cercare di migliorare, per quanto possibile, la sua qualità di vita e quella della famiglia che lo circonda e lo sostiene. Far sí che la persona riesca ad accettare la malattia e ne diventi consapevole con le conseguenze annesse è uno dei principali obiettivi; ma bisogna anche dire che, per arrivare ad una piena consapevolezza, ci si deve scontrare con la rabbia della persona che inizia a chiedersi “Perché proprio a me?
Ecco che a questo punto occorre aiutare il soggetto interessato da prognosi infausta innanzitutto ad elaborare l’esistenza della patologia che lo ha colpito, sostenendolo nelle difficoltà che quotidianamente incontra fino ad arrivare alla comprensione che con quella malattia deve purtroppo convivere; e si tratterà di una convivenza per niente semplice e facile, che avrà momenti di accettazione e di reazione, ed altri di avvilimento e frustrazione.
In seguito alla comunicazione della diagnosi si è infatti visto come nasca inevitabilmente nel soggetto la necessità di adattamenti repentini nell’organizzazione della propria vita, facendo emergere problemi logistici anche di grande importanza; tutto ciò accompagnato da un improvviso cambiamento nei rapporti affettivi, lavorativi e sociali a cui solitamente si aggiunge anche una certa perdita di autonomia personale.
In questo “fare i conti con il dolore” risulta indispensabile un confronto interiore con l’evento subito che stimola una revisione degli abituali schemi funzionali, mettendo in discussione la visione del mondo, di sè e degli altri. La trasformazione delle convenzioni personali appare centrale per il recupero e la crescita psicologica dopo un trauma, di cui consente la rilettura e la collocazione nella giusta prospettiva.
Il raggiungimento di una condizione di “resilienza” richiede dunque di passare necessariamente attraverso il confronto con il trauma subito e la revisione della propria storia personale.
Gli interventi di psicologia per promuovere la resilienza, messi in atto anche dagli operatori del Pronto Soccorso Psicologico-Italia, sono molto importanti in quanto possono influenzare il tipo di traiettoria che i pazienti stanno percorrendo, contribuendo ad un miglioramento della qualità di vita, passando attraverso interventi che insegnino ad esempio la gestione attiva dello stress e dell’ansia, strategie di copying e la consapevolezza e capacità di lavorare per obiettivi.
Tutto ciò accompagnato da un lavoro di “gestione dell’emotività” che se non ben contenuta può divenire un ulteriore ostacolo, mentre se ben modulata può rappresentare una vitale risorsa per affrontare il decorso della malattia.
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