A cura della Dott.ssa Vera Cantavenera , Psicologa Clinica, Coordinatrice sede di Agrigento Psp Italia
“Non è la disabilità del bambino che svantaggia e disintegra le famiglie: è il loro modo di reagire ad essa e tra di loro (Dickman & Gordon, 1985)
La Disabilità è un evento critico, un terremoto emotivo che irrompe violentemente nella vita di una famiglia, modificandone le dinamiche e in generale il funzionamento. A chiunque dei membri della famiglia (figli, coniuge, genitori) venga diagnosticata la disabilità ha un impatto sugli assetti mentali, emotivi e relazionali dell’intero sistema familiare. La disabilità ha il potere di modificare il normale ciclo di vita della famiglia incidendo, non solo sulle relazioni, ma anche sulla percezioni del sè che deve essere integrato con la nuova diagnosi. Senza dubbio però, tra tutti gli eventi critici evolutivi, che si riscontrano in tutti i nuclei familiari, quello della “disabilità di un figlio” è il più difficile da metabolizzare.
Di fatto, se ad essere disabile è un genitore è quasi naturale che il figlio si adatti alla difficoltà. Nessun genitore ha mai dovuto spiegare nulla a suo figlio. Il bimbo, fin da piccolo, capisce che la mamma o il papà hanno un problema e reagisce di conseguenza. I bambini non vedono la disabilità del genitore: ad esempio, nascere ciechi in una famiglia di ciechi è normale, così come lo è nascere vedenti in una famiglia di disabili visivi.
Accade invece il contrario, come accennato in precedenza, se a un genitore sano nasce un figlio disabile. In questo caso specifico, il problema non sarà tanto del figlio, quanto del genitore che, probabilmente, proverà un senso di colpa molto grande.
I genitori, e particolarmente la madre, possono avvertire un enorme senso di frustrazione, che può sfociare in vere e proprie crisi depressive. Non di rado, la prima reazione, è la non accettazione del figlio disabile e/o la determinazione a voler normalizzare a tutti i costi il figlio stesso. Il senso di fallimento vissuto dalla coppia determina ansia e insicurezza, che si riflettono nei rapporti interpersonali, e sugli altri membri della famiglia.
Spesso, infatti, quando in una famiglia c’è un figlio disabile, le energie dei genitori convogliano su di lui, tagliando fuori altri figli “sani”. Non a caso, si manifestano tensioni tra fratelli visto che, tendenzialmente, ai figli non portatori di handicap vengono date importanti responsabilità fin da quando sono piccoli. Di fatto, spesso viene chiesto loro d’essere sempre comprensivi, sempre disponibili, di crescere in fretta e da soli. Questa estrema ed eccessiva responsabilizzazione li pone in una situazione in cui è avvertita maggiormente la solitudine ed una relativa paura del futuro. Questa paura a turno attanaglia tutti i componenti della famiglia che si ritrovavano nella quotidianità a combattere e subire questo “disturbo”.
Cosa diventerà la famiglia, dopo la scoperta della disabilità, dipenderà dalla struttura di personalità dei componenti la coppia genitoriale e dal contesto socio-affettivo di riferimento. Dipenderà dai confini di personalità, tanto più profondi e rigidi saranno tanto più la disabilità sarà una ferita al nucleo familiare. La costruzione del “senso della disabilità”, determina gli atteggiamenti relazionali della famiglia che a sua volta risente del clima culturale, del periodo storico.
Ad esempio, negli anni 70 la reattività delle famiglie con disabilità era quasi una scelta obbligata: nascondersi e nascondere il figlio disabile. Il che significava anche occultare la colpa e la vergogna per aver generato la patologia. Da allora continua ad accadere che i genitori si chiedano: “Perché proprio a me?“ , “Cosa ho fatto di male per meritarmi tanto?”. Dentro queste frasi c’è la visione e il senso della disabilità, c’è la posizione esistenziale.
“Poverino” è l’aggettivo più comunemente utilizzato, quando si fa riferimento ad un disabile. E se inizialmente la disabilità è stata percepita:
• come evento catastrofico: la Famiglia si disgrega, pensa che “nulla potrà essere più come prima”, vengono frantumati i legami affettivi interni e sociali, i componenti non riescono a darsi sostegno;
• come punizione: la Famiglia è piena di sensi di colpa, si attribuisce la responsabilità dell’accaduto e non riesce a perdonarsi. La reazione può essere la rabbia o la depressione;
• come volere divino, come prova, come disegno superiore a cui la famiglia è stata sottoposta;
Con l’evolversi del tempo si è giunti a guardare alla disabilità come “diversità umana”. Questa visione è tra le più corrette ed è quella che apre le porte dell’”accettazione”. Anche se per giungere all’accettazione della disabilità la strada è lunga e faticosa.
Molti genitori galleggiano nella rassegnazione: “dobbiamo conviverci”. Di fatto, non tutte le famiglie giungono ad attraversare il “ciclo di elaborazione della sofferenza” le cui fasi sono:
negazione della realtà;
rabbia;
contrattazione;
depressione;
accettazione.
Molte rimangono imprigionate nella fase della rabbia, autoalimentata da frasi tipo: “Perché proprio a me? Cosa ho fatto di male. Meritavo tutto questo?” Sono quei genitori che si attendono un risarcimento dalla vita. Ma non esiste lo sportello della vita dove poter reclamare.
È per tali ragioni che di fronte a tale disagio risulta importante per la famiglia il sapersi riorganizzare e il sostentarsi gli uni con gli altri. Sicuramente infatti, la nascita di un figlio disabile, o comunque, il momento della scoperta del disturbo, è un fenomeno dirompente all’interno del ciclo vitale di una famiglia, tale da produrre una crisi di ampia portata. La scoperta del disturbo, tuttavia, è solo il primo grande ostacolo davanti al quale si trovano le famiglie di un bambino disabile, il primo in scala ontogenetica.
Esistono infatti altri momenti cruciali, che spesso coincidono con le tappe importanti della crescita del figlio, che pongono i familiari innanzi a nuovi problemi di adattamento (Myers, 1991). Nei primi mesi di vita, il bambino è piccolo e l’esperienza del genitore di un figlio disabile non risulta molto dissimile da quello di uno senza disabilità; la discrepanza con i coetanei sia in termini di livello evolutivo che in termini di bisogni e interessi, aumenta ovviamente con la crescita. Nella maggior parte dei casi i genitori, si ritrovano a fronteggiare tutta una serie di problemi evolutivi cruciali (adolescenza e passaggio età adulta), poichè esiste anche una difficoltà culturalmente determinata a pensare il disabile come individuo adulto.
Ciò ch’è possibile asserire è che nella famiglia, dopo una prima fase di shock e incredulità, lentamente si sviluppa poi una certa razionalità e consapevolezza del problema e dei bisogni del figlio disabile e subentra il graduale adattamento alla nuova realtà, la costruzione di un rapporto reale con il proprio figlio (Di Cagno, Gandione, Massaglia, 1992).
É così che pian piano viene fuori l’aspetto “normodotato” della famiglia, ovvero sia, il momento in cui ciascun componente “rivendica”, com’è giusto che sia, i suoi spazi e ri-inizia a coltivare i suoi interessi e abbia momenti di svago. Questo rappresenta un recupero della propria identità e nel ritrovare se stessi ci si sente meno soli, meno colpevolizzati; viceversa si rischia di entrare in un tunnel dove la depressione fa da capolino e lo stress e l’ansia dirompono vorticosamente generando sentimenti e atteggiamenti di tipo depressivo.
Di fatto, qualsiasi evento che rompa gli equilibri esistenti e richieda l’adattamento è potenzialmente una fonte di stress. Tutta la nostra esistenza è scandita da eventi stressanti, che ci costringono a trasformare le nostre risorse per affrontarli e superarli; il modo in cui li affrontiamo e le risorse che siamo in grado di attivare hanno una forte influenza sulla traiettoria del nostro sviluppo. Situazioni stressanti per la famiglia possono condurre i genitori a sperimentare distress circa il loro ruolo genitoriale, con conseguenze a medio e lungo termine sulla relazione genitore-bambino e sulla capacità di risposta costruttiva ai bisogni del minore (Kirby, 2005).
Per McCubbin e Patterson (1982), la capacità del genitore di far fronte ad una situazione stressante è determinata dall’interazione tra l’evento stressante e i successivi eventi sfavorevoli della vita, le risorse familiari, le percezioni dei genitori e le strategie di coping utilizzate. Il risultato di questa interazione è il livello di adattamento familiare che va dallo stress grave/crisi ad un buon adattamento. Per preservare la “stabilità” familiare una tra le soluzioni plausibili è la resilienza, ovvero la capacità di affrontare e superare le difficoltà adattandosi in modo positivo all’ambiente circostante. Il concetto di “resilienza” porta con sé anche la capacità di non perdere il contatto con la realtà. Per salvaguardare l’equilibrio, i familiari del disabile non devono annullare sè stessi, ma devono mettersi, come già accennato, al centro, cercando di vivere una vita quanto più normale a contatto sì con i loro affetti, ma anche con le loro passioni. La tranquillità dei membri della famiglia sta alla base della coesione e dell’armonia familiare, il che ha effetti positivi anche sull’adattamento psicologico e sulla capacità di riorganizzarsi di ogni membro della famiglia in presenza di un disabile.
In tutto questo fondamentale diviene per la famiglia mantenere delle buone relazioni sociali. L’aiuto esterno oltre che intra familiare diviene fondamentale: ecco che non solo amici e parenti sono “utili” ma anche enti, pubblici (Stato, Provincia, Comune e Asl) o privati, e associazioni che sostengono la famiglia del disabili in vario modo. Tuttavia, spesso l’errore che si fa è quello di pensare che i bisogni che possono avere le famiglie con bambini disabili sono soprattutto quelli di tipo materiale. Pensiamo che forse hanno bisogno di aiuti economici o di infrastrutture, ma raramente ci accorgiamo che vi è di più.
La verità è che le famiglie hanno anche e soprattutto dei bisogni affettivi, sociali e informativi. Per tutte le famiglie che hanno un figlio disabile non è facile riformulare gli eventi in positivo nè trovare un significato nella loro vita. Assumere questa nuova prospettiva positiva significherebbe per loro accedere all’accettazione e alla trasformazione che permetterebbe loro di vivere la menomazione e la conseguente disabilità solo come un aspetto della vita (Farber, 1986).
Diviene fondamentale per tutti gli operatori del settore, riconoscere che le famiglie hanno modi diversi di sperimentare la disabilità di un figlio. Ed è a partire da ciò, cioè dalle strategie di coping messe in atto da ciascuna famiglia e da ogni membro facente parte, che dev’essere affrontato l’argomento disabilità in famiglia. È in questi contesti che il Servizio di PSPI può inserirsi come rete sociale utile a prevenzione e tutela della salute psicofisica dei membri della famiglia che vivono una disabilità.
A tal riguardo, i professionisti del Pronto Soccorso Psicologico-Italia possono essere d’aiuto alle famiglie che, in seguito alla scoperta della nascita di un figlio disabile, necessitano in primis d’essere rassicurati dalle loro paure, o meglio, hanno bisogno di dar voce alle loro paure. Di fatto, l’equipe del PSPI, attraverso un percorso di rielaborazione del “lutto” (spesso la disabilità è percepita come tale), costruito ad hoc a seconda delle famiglie, andando a ritroso accompagnando la famiglia per mano, a rivivere l’evento di comunicazione della diagnosi, il momento dell’insorgenza della malattia, il giorno dell’incidente… cerca di togliere quel velo di paura che attanaglia e soffoca ciascun membro che può pian piano ritornare a guardare al presente.
É un arduo compito ma, agendo sul “qui ed ora” della sintomatologia presentata dagli utenti, il terapista del PSPI ha chiaro che la famiglia ha bisogno di guardare “la metà che è rimasta” e ripartire da lì. Il fatto di conoscere la diagnosi del proprio figlio, partner, genitore aiuta, non solo a capire cosa si sta vivendo ma anche, e soprattutto, a capire come organizzarsi la vita. I ritmi cambiano e con essi si modificano le abitudini e personali e familiari. Spesso le famiglie dei disabili lamentano di essere sole ad occuparsi di tutto. Il PSPI accoglie l’utenza in qualsiasi momento, con l’obiettivo di fornire aiuto e sostegno immediato per la gestione ed il contenimento della situazione di “emergenza psicologica”. In questi specifici casi, come recita Ellen Godman, “l’mpresa più difficile dell’essere genitori è lasciare che le nostre speranze per i figli abbiano la meglio sulle nostre paure”. Ed è questo l’intento dei professionisti del PSPI che, operando a garanzia del benessere psicologico delle persone, agiscono nell’immediato ridando speranza a chiunque in quello specifico momento si è lasciato travolgere dal vortice della paura ed è attraversato da pensieri negativi.
Dott.ssa Vera Cantavenera , Psicologa Clinica, Coordinatrice sede di Agrigento Psp Italia
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