cura della Dott.ssa Nicoletta Caruso, Psicologa Clinica, Pronto Soccorso Psicologico Italia
“Nello stesso istante, in profonda solitudine, dentro il tuo essere ti capita: amare e odiare. Amare se stessi, odiarsi, affannarsi alla ricerca di un amore ideale, immaginario, cercato. Respingere per amore; libertà assoluta del pensiero e dell’anima. Odiare e contemporaneamente amare: te stesso, le persone, gli animali, la natura, l’universo.
È la solitudine di ogni giorno che ti accarezza, ti ama, ti respinge, ti tradisce…
Accade spesso: un amore finisce perché ti risulta essere cieco; un odio nasce perché non hai strade alternative. L’amore terreno, quello che t’infiamma e ti brucia giorno per giorno, è pura illusione; l’amore per sempre, quello eterno è un’altra cosa: riesce in un crogiuolo di amore terreno, odio e solitudine quotidiana, ad aprire l’eterno e immenso amore verso Dio.”
Amore, odio, solitudine
Ognibene P., Turco A.
Abstract
Being alone and feeling alone are different experiences: what I believe in my mind exists. For better or for worse, it is a subjective perception that makes the difference. In recent months, the topic of loneliness has been addressed from different points of view, and from whatever perspective you look at it, it represents, more often than not, a reason for discomfort and suffering. This work aims to draw attention to an essential and often underestimated aspect of solitude: solitude is seen as a resource and the ability to look within.
Riassunto
Essere soli e sentirsi soli sono esperienze diverse: ciò che è creduto nella mia mente, esiste. Nel bene e nel male, è la percezione soggettiva a fare la differenza. In questi ultimi mesi, il tema della solitudine è stato affrontato da diversi punti di vista e, da qualunque prospettiva la si guardi, rappresenta, il più delle volte, motivo di disagio e sofferenza. L’obiettivo di questo lavoro è quello di provare a porre l’attenzione su un aspetto molto importante della solitudine e spesso sottovalutato: la solitudine vista come risorsa e come capacità di guardarsi dentro.
Introduzione
Quello della solitudine è un tema particolarmente sfaccettato che è stato affrontato da vari punti di vista, soprattutto in questi ultimi anni reduci di covid. Esistono diverse teorie rispetto alla genesi della solitudine e, se qualcuno ci chiedesse se la solitudine sia presente nelle nostre vite, la maggior parte delle persone darebbe una risposta affermativa. Oggi non voglio soffermarmi sul concetto in sé di solitudine, ma su quello che “sentiamo” quando proviamo questo sentimento. E non è un caso il titolo scelto per questo articolo.
Sappiamo tutti cosa significhi sentirsi soli, ma sappiamo anche che non tutte le persone la pensano allo stesso modo.
“Per alcune, i periodi di isolamento sociale sono ricercati per pensare, creare, meditare o ricaricarsi. Per altri sono un vuoto pesante, insostenibile che può scatenare tristezza, depressione, senso di alienazione e isolamento. A volte possiamo essere completamente circondati dalle persone e sentirci comunque soli, o viceversa; infatti potremmo non avere alcuna compagnia e provare un certo piacere che non implica il sentirci soli. In realtà questo sentimento si riferisce alla connessione che sentiamo verso le altre persone o verso noi stessi, sia essa buona e potente o, al contrario, nulla e negativa.
L’essere umano risente duramente dell’assenza del contatto con altri individui.
Noi la chiamiamo “solitudine”, ma questa sensazione di isolamento non ha radici unicamente sociali, ma trova un suo spazio anche all’interno delle cellule del nostro cervello.
Se la solitudine è indesiderata, vissuta come sgradita, per periodi prolungati, può avere effetti negativi sulla salute fisica e mentale, sino a determinare veri cambiamenti nel cervello. Infatti, secondo le neuroscienze, esiste una regione del nostro cervello capace di rappresentare proprio la sensazione della solitudine.”(Sepe A. M., 2023). “E’ situata proprio nella parte posteriore del cervello, in un’area chiamata nucleo dorsale del rafe, fondamentale per stimolare la socievolezza nei soggetti che sono stati a lungo in isolamento” (David J. Anderson e Moriel Zelikowsky, 2018). “Per giungere a questa conclusione, i ricercatori hanno isolato un topo per 24 ore e ne hanno misurato il livello di attività delle cellule del nucleo dorsale del rafe. I dati raccolti hanno mostrato un picco di attività in quest’area del cervello, quando l’animale si è ricongiunto con il resto del gruppo di topi. Precedentemente invece, sia prima di essere isolato che durante il periodo di solitudine, i neuroni relativi a questa regione non risultavano particolarmente attivi. Inoltre il topo è risultato più socievole con gli altri” (Sepe, A., M., 2023).
Altre ricerche hanno dimostrato anche che la solitudine provoca aggressività. “L’isolamento sociale fa aumentare nel cervello le concentrazioni di un molecola che alimenta comportamenti aggressivi e legati alla paura. Lo ha dimostrato un team di ricerca della Divisione di Biologia e Ingegneria Biologica presso l’autorevole California Institute of Technology di Pasadena, dopo aver condotto specifici esperimenti su modelli murini (topi). La ricerca ha preso a modello un gruppo di topi da laboratorio e li ha mantenuti isolati per due settimane, ottenendo un risultato sorprendente: questi topi manifestavano permanentemente aggressività verso gli estranei, paura e ipersensibilità agli stimoli esterni. Le tempistiche elevate per ottenere i suddetti comportamenti hanno dimostrato la necessità, alla base, di modificazioni sostanziali nei circuiti cerebrali. Negli animali mantenuti separati dal resto del gruppo è stata in particolare osservata un’ ipersecrezione di una specifica proteina, la neurochinina B (NkB), identificata dunque come responsabile dei comportamenti negativi legati all’isolamento. Gli studiosi hanno inoltre visto che alterando l’attività di questa proteina è possibile modificare gli effetti dell’isolamento prolungato sul comportamento. Infatti il blocco della neurochinina B nei topi isolati elimina i comportamenti anomali associati all’isolamento, mentre un suo aumento rende i topi cresciuti in condizioni normali aggressivi e impauriti” (David J. Anderson e Moriel Zelikowsky, 2018).
Altre ricerche hanno dimostrato che anche il cuore risente degli effetti della solitudine: “Gli adulti di mezza età che vivono da soli hanno il 24% di probabilità in più di soffrire di malattie cardiache, secondo uno studio condotto dal dottor Jihui Zhang e altri (2023).
Ma qual è il collegamento tra la sensazione di sentirsi soli e il nostro cuore?
Chi soffre di solitudine non ha il “cuscinetto” dell’affetto altrui: non avendo il supporto morale o il calore di amici e parenti, si è più predisposti a risentire degli effetti negativi dello stress, che aumentano la possibilità di soffrire di disturbi cardiaci. Elevati livelli di ormoni dello stress fanno sì che nel cuore si accumuli il colesterolo. Ma non solo: pensando di non poter contare su nessuno, nel caso in cui ci si senta male si è meno predisposti a dirlo a qualcuno e ad andare dal medico. Chi sente solo, poi, generalmente fa meno attività fisica e mangia in modo disordinato: fattori, questi, non ideali per la nostra salute e per il nostro cuore” (Sepe, A., M., 2023).
Da un punto di vista psicologico, il senso di solitudine spaventa. “Del resto, l’epoca in cui viviamo associa automaticamente la solitudine all’isolamento: stare soli è diventato sinonimo di sconfitta e di depressione.
Anche la psicologia tratta la solitudine come un problema, eppure tutti siamo perfettamente consapevoli che l’amore, i figli, il lavoro, le sicurezze, le cose che possediamo non sono stabili, tutto è in divenire. Ecco che allora si finisce per vivere gli eventi sempre con un timore di sottofondo. Un timore che si percepisce chiaramente nelle relazioni: non appena qualcosa comincia a non funzionare, ci si agita e si va subito in ansia proprio perché si ha paura di rimanere soli, quasi che la solitudine fosse una malattia e portasse solo danni. Ma non è affatto così.
La solitudine è un sentimento naturale e non un dramma esistenziale: se ben vissuto, può portare dei benefici inaspettati.” (dal web, riza.it).
“La maggior parte di noi fatica a cogliere il vero significato e la forza della solitudine come stato interiore. Essere soli non significa affatto che ci manchi qualcosa, al contrario significa essere completi. Di cosa? Della pienezza che è in noi, la quale, se percepita, ci donerà uno stato di calma e di tranquillità che fa vivere bene.
Ma questo benessere non si raggiunge attraverso la solitudine intesa come “stare da soli con i propri pensieri”, anzi è proprio la loro eccessiva presenza a impedirci di raggiungere quello stato contemplativo di cui ha bisogno il nostro cervello. Stare veramente soli vuol dire farsi abbracciare dal silenzio, lasciarsi andare, fino ad approdare a quel vuoto interiore che i Saggi chiamano sostanza suprema dell’Essere” (dal web, riza.it).
Concetto chiave è Accogliere: “smettere di lottare contro le sensazioni che si provano e di indagarne razionalmente le cause. E non si deve perché è inutile, soprattutto si finisce per non considerare ciò che abbiamo di più importante, la nostra unicità, che si affaccia proprio attraverso i nostri stati interiori, solitudine compresa. Occorre quindi un cambio di prospettiva: se mi sento solo significa che qualcosa “da dentro” sta cercando di esprimersi. Se la interrogo, la commento, la giudico e la combatto, finirò per diventare come tutti gli altri. Omologato. E allora sì che soffrirò davvero. Occorre invece percepire nel corpo questo senso di solitudine, perché il corpo ha tutte le risposte.
Guardare la solitudine quando si presenta: osservare, aspettare e, soprattutto, essere presenti. Noi siamo spesso troppo poco presenti alle emozioni ed è per questo che tutto diventa difficile. Occorre invece essere presenti al senso di solitudine quando arriva, alla malinconia quando compare.
Perchè?
Per rivolgere lo sguardo sull’interno, senza il pensiero. Così facendo, ciò che noi guardiamo fruttificherà dentro di noi, producendo effetti inaspettati, come se con lo sguardo “fecondassimo” noi stessi. E tutto questo lo si può fare attraverso molte strade, e ognuno deve trovare la propria. È possibile ad esempio trovarla perdendosi in un’attività che si ama, nello sport o nel contatto con la natura: i pensieri sfumano, la mente diventa tutt’uno con le cose e tutto fluisce in modo perfetto. Anche l’immaginazione può essere un utilissimo strumento capace di riallinearci alla nostra interiorità.
I nostri problemi non nascono dalle emozioni, ma dal fatto che combattiamo ciò che avviene spontaneamente, e complichiamo tutto. Accogliere i nostri stati interiori significa creare un rapporto positivo con questa profondità, la quale ci regalerà una sensazione di pienezza e di benessere psicologico dovuti alla percezione che non siamo soli proprio perché sostenuti dai contenuti del nostro mondo interiore” (riza.it).
“Siamo tutti il frutto del nostro passato, siamo diventati quello che siamo a causa, (o grazie) alle esperienze che abbiamo avuto in famiglia, con gli amici, a scuola, al lavoro, nelle relazioni. Possiamo però non limitarci a “essere la conseguenza di quello che è stato”, ma regalarci la possibilità di essere semplicemente come meritiamo di essere (Sepe, A., M., 2023).
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