Benessere e scopo della vita: la personalità eudaimonica

A cura del Prof. Mariano Indelicato, Presidente Pronto Soccorso Psicologico

Abstract

The concept of well-being is multifaceted (Mitchell et al., 2010) and is commonly associated with happiness and achieving pleasure. In recent years, especially after the pandemic linked to Covid 19, research and studies have focused on eudaimonic well-being, which, on the contrary, refers to the meaning, purpose of life and optimal functioning. In the present work, through a systematic qualitative analysis, we wanted to probe the formation, also through generational passages, of a eudaimonic personality by referring to Aristotle’s definition of Agathoi,  becoming valid people to reach the maximum degree of well-being.

Riassunto

Il concetto di benessere è estremamente poliedrico (Mitchell et al., 2010) e comunemente viene associato alla felicità, al raggiungimento del piacere. Negli ultimi anni, soprattutto dopo la pandemia legata al Covid 19, le ricerche e gli studi si sono concentrati sul benessere euadaimonico che, al contrario, fa riferimento al significato, allo scopo della vita e ad un funzionamento ottimale. Nel presente lavoro,  attraverso un’analisi sistematica di tipo qualitativo, si è voluta sondare la formazione, anche attraverso i passaggi generazionali, di una personalità eudaimonica facendo riferimento alla definizione di  Aristotele  di Agathoi  cioè diventare persone valide al fine di raggiungere il massimo grado di benessere.

Introduzione

E’ naturale che ogni persona tende a stare bene, a vivere una condizione esistenziale positiva sia sul piano personale, sia in quello interpersonale. E’ altrettanto chiaro, però, che spesso il benessere, come descritto da Leopardi (1898), è il breve intervallo tra due dolori. Una ricerca condotta da Chen e Zeng (2023) invalida la suddetta affermazione poiché, attraverso un’autovalutazione del benessere soggettivo, arrivano alla conclusione che le motivazioni alla ricerca del piacere erano correlate positivamente con il benessere mentre quelle di evitamento del dolore non producono sensazioni di benessere.

In psicologia, infatti, il benessere  appare un costrutto estremamente poliedrico, ancora privo di una definizione che goda di un consenso unanime (Mitchell et al., 2010). La Commissione Salute dell’Osservatorio europeo sui sistemi e le politiche per la salute, a cui partecipa il distaccamento europeo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel tentativo di integrare le diverse definizioni,  ha proposto una definizione di benessere come “lo stato emotivo, mentale, fisico, sociale e spirituale di ben-essere che consente alle persone di raggiungere e mantenere il loro potenziale personale nella società” (1997).  Pur nelle diversità teoriche, il concetto di benessere è stato racchiuso all’interno delle categorie edoniche ed eudaimoniche e sulla loro integrazione.

L’approccio edonico si concentra sulla felicità e definisce il benessere in termini di raggiungimento del piacere ed evitamento del dolore; l’approccio eudaimonico fa riferimento al  significato, allo scopo della vita  e all’autorealizzazione e definisce il benessere in termini di grado in cui una persona è pienamente funzionante (Ryan e Deci, 2001). I due costrutti, comunque, non sono indipendenti ma si riferiscono a due concezioni diverse  degli stati soggettivi e della relativa motivazione intrinseca (Waterman et al., 2010). Dal punto di vista filosofico, dal quale sono partiti gli studi anche in ambito psicologico, il benessere edonico riguarda il raggiungimento del piacere attraverso la soddisfazione dei bisogni con il possesso di oggetti materiali che si desidera avere o sperimentare (Krault, 1979). Il benessere eudaimonico, invece, è associato all’esperienza soggettiva nel fare ciò che vale la pena fare e del possedere ciò che vale la pena avere (Norton, 1976 –  Telfer, 1980).

La distinzione sembra riprendere i concetti di distonia dell’avere e dell’essere di Fromm (1976). L’avereè tipico di vissuti soggettivi dove il possesso è una condizione essenziale e l’esistenza è mirata ad accumulare per mostrare uno status sociale elevato, per gratificarsi di ciò che ha e sperare nell’invidia e nell’adulazione del prossimo. L’essere, al contrario, è contraddistinto dall’esigenza del desiderio ovvero avrà i tratti di una persona che giungerà in tempi più lunghi ai suoi obiettivi, amerà desiderare, anelare, attendere la possibile soddisfazione per gustarne più intensamente il sapore dell’appagamento, desidera sentire il desiderio e l’emozione che lascia dentro piuttosto che ottenere immediatamente e si coinvolgerà con persone che non appagheranno le sue esigenze. In quest’ambito,  la ricerca della felicità oscillerebbe nell’equilibrio tra due opposte esigenze la distonia dell’avere e quella dell’essere (Fromm,1976).

Watermann et alt. (2003), a tal proposito, sostengono che l’individuo può sperimentare tre tipi di attività: (a) quelle per le quali si sperimentano sia il godimento edonico che l’eudaimonia; (b) quelli per i quali si sperimenta il godimento edonico, ma non l’eudaimonia; e (c) quelli che non danno luogo né al godimento edonico né all’eudaimonia.

Negli ultimi anni, come vedremo successivamente,  l’eudaimonia, come elemento di benessere psicologico positivo, ha ricevuto crescente attenzione poiché gli studiosi hanno iniziato a riconoscere la necessità di espandere la definizione di benessere oltre il sentirsi bene per includere il buon funzionamento (der Kinderen e Khapova, 2021). In precedenza gli studi si erano concentrati sulla qualità di vita e sulle risposte individuali all’ambiente in cui erano inserirti (Andrews et al.,  1976 – Campbellet et al. , 1976). In particolare, si è associato il benessere eudaimonico con le relazioni interpersonali e con la prosocialità (Myers, 1999 – 2000 –  Myers e Diener, 1995). 

Diener (2000),  ha scoperto che le relazioni sociali rappresentano l’unico fattore che prevede in modo coerente il benessere soggettivo. Attraverso diversi livelli di condizioni sociodemografiche e culturali, le persone riferiscono costantemente che le relazioni di successo con altre persone significative rappresentano uno dei loro obiettivi e aspirazioni di vita più importanti e che le relazioni di successo rendono la vita degna di essere vissuta (Emmons, 1999; 2003; Hinde, 1997; Little , 1989).  L’idea da cui sono partiti questi studi è che la felicità nutre la vita, aiuta a vivere meglio.  La felicità, intesa come assenza di disagio, è capace a sua volta di promuovere altra felicità, poiché nell’ambiente sociale il benessere di un individuo influisce anche sul benessere di chi gli vive accanto (Andreoli, 2013).

Murphy e Ackermann (2014), criticando le teorie psicologiche, sociologiche ed economiche che hanno postulato che l’interesse individuale guidi il comportamento, hanno messo in luce attraverso la misurazione del SVO (Orientamento al Valore Sociale) che “ciò che motiva le persone quando prendono decisioni e il modo in cui tali motivazioni sono potenzialmente intrecciate con le preoccupazioni per gli altri”.  Falk e Graeber ( 2020) si chiedono se i comportamenti prosociali promuovono la felicità attraverso un paradigma sperimentale denominato Saving a Life. In fase sperimentale le persone potevano salvare una vita umana o donando 350 € o ricevendo 100 €. In ambedue i casi di scelta veniva misurata ripetutamente la felicità. I risultati che hanno ottenuto in un primo momento erano che il comportamento prosociale (donazione) dava una felicità maggiore rispetto all’ottenimento del denaro. In un esperimento successivo, invece, quelli che prima avevano un comportamento maggiormente prosociale hanno mostrato la preferenza a ricevere il denaro a dimostrazione che i comportamenti prosociale non sono universali. 

Kushlev et al.(2022) hanno esplorato la correlazione tra benessere individuale e comportamenti prosociali, attraverso una popolazione di 167 paesi, in tutto il mondo scoprendo che solo la soddisfazione di vita e gli affetti positivi erano correlati positivamente, mentre gli affetti negativi non correlavano per tutti i paesi del mondo. Rinner et alt. (2022) hanno messo, attraverso un’attività sperimentale, in risalto il ruolo dell’autonomia nei comportamenti prosociali ai fini del benessere. Infatti, essi consigliano “Gli interventi volti a promuovere comportamenti prosociali dovrebbero garantire che i comportamenti siano attuati in modo autonomo”.  Addirittura Song et alt. (2020), in linea con il parametro di Saving a Life, hanno sperimentato che i bambini di due paesi diversi (Olanda e Cina) mostrano più felicità quando condividono piuttosto che quando ricevono dolcetti. Per i suddetti ricercatori questa è la prova che gli esseri umani per loro natura sono prosociali e, da quest’ultima caratteristica, dipende il loro benessere. 

I suddetti studi e dati di ricerca vengono confermati anche dai dati teorici come quelli di Aknin e Whillans (2021) e Hui (2022). I primi facendo riferimento alla Self – Determination Theory di Ryan e Deci (2000) sostengono che gli esseri umani hanno tre bisogni fondamentali per il loro benessere fisico e psicologico che individuano: nell’autonomia definita come il bisogno di vedere le proprie azioni come volitive o autodeterminate; nella competenza definita come il bisogno di vedere se stessi come attori capaci ed efficaci e nella relazionalità definita come il bisogno di sentirsi vicini o connessi con gli altri esseri umani.  Il lavoro di Hui, invece, tenta di risolvere la dicotomia presente negli studi sul benessere e la prosocialità ovvero se il primo è effetto della prosocialità e/o causa. Il modello di Hui si basa sulla reciprocità per cui il comportamento prosociale genera benessere e, nello stesso tempo, quest’ultimo genera il comportamento prosociale. In sostanza, gli studi citati tendono a confermare che gli individui con preferenze prosociali tendono a comportarsi in modo più prosociale di quelli con preferenze proself perché il benessere degli altri ha un maggiore impatto positivo sul proprio benessere (Iwasaki, 2023). Questi studi, inoltre, dimostrano che l’essere umano è un uomo sociale e il suo benessere cosi come il benessere dell’intero sistema sociale dipendono dalle azioni reciproche. Infatti, come messo in luce in uno studio recente di Iwasaki (2023) i ricercatori hanno studiato varie determinanti del benessere soggettivo come: la genitorialità (Poll mann-Schult, 2014 – Radó, 2020),  le preferenze politiche (Napiere Jost, 2008 – Onraet et al., 2017),  il reddito (Boyce et al., 2010 – FitzRoy e Nolan, 2022), l’istruzione (Cuñado e de Gracia, 2012 –  Nikolaev, 2018) che giocano un ruolo significativo nella vita sociale e sono altamente correlati con la felicità. Quanto ci preoccupiamo per gli altri gioca un ruolo importante nella vita sociale, quindi è naturale supporre che anche le preferenze sociali abbiano una grande impatto sulla felicità.

Si deve, comunque, a Ryff (1982, 1985, 1989, 2006) lo sviluppo di un modello di benessere in riferimento all’eudaimonia. Le  dimensioni individuate  (fig.1) fanno riferimento a tutte le teorie cliniche che nel tempo si sono occupate non tanto di disfunzioni ma di aspetti positivi dell’individuo.

A tal fine,  Ryff (1982) fa riferimento ai concetti di Jahoda (1958),  sulle caratteristiche centrali della salute mentale, di autorealizzazione di Maslow (1968), del funzionamento ottimale Rogers  (1962),  della maturità (Allport, 1961), alle teorie dello sviluppo dell’arco di vita di Erikson (1959) e di Neugarten (1973), di tendenze basilari di vita di Buhler (1935),  di ombra di Jung (1946), dell’idea esistenziale di vivere in malafede di Sartre (1956).  Le dimensioni individuate sono 6:

  1. L’accettazione di sé intesa non tanto come la necessità di avere un’autostima positiva ma, piuttosto, come la presa di consapevolezza dei propri aspetti positivi e negativi;
  2. Relazioni positive con gli altri in cui l’amore e i sentimenti sono messi in relazione con la realizzazione di grandi cose;
  3. La crescita personale indica l’autorealizzazione di se stessi come elemento importante e funzionale ai fini del benessere individuale;
  4. Lo scopo della vita che è volto, da una lato, alla creazione di uno scopo e di una direzione alla vita e, dall’altro, alla capacità di affrontare le avversità all’esistenza a cui è esposto l’individuo;
  5. La padronanza ambientale ovvero la capacità dell’individuo di scegliere o creare ambienti adatti alle sue condizioni psichiche;
  6. L’ autonomia intesa come la capacità di auto-determinarsi.

Da queste premesse, il presente lavoro intende, attraverso una analisi qualitativa, analizzare attraverso il  modello relazionale simbolico (Scabini e Cigoli, 2000), gli influssi delle spinte e dei passaggi generazionali sul benessere eudaimonico.

Il modello relazionale simbolico e i passaggi generazionali

Il termine eudaimonia deriva da eu “bene” e  daimon “Demone” e, letteralmente, significa “essere in compagnia di un buon demone” che, in apparenza, indica che il benessere può essere raggiunto da chi possiede una buona sorte. In effetti, cosi come ammonisce Aristotele, il benessere non corrisponde al piacere ma è il bene ultimo dell’uomo. D’altronde le dimensione individuate da Ryff (1982) vanno esattamente in questa direzione. Il benessere eudaimonico, al contrario di quello edonico,  non è la ricchezza cosi come gli onori poiché la prima è un mezzo per raggiungere altro, e i secondi, la modalità con cui superare le proprie insicurezze. Per Aristotele bisogna essere Agathoi  cioè diventare persone valide al fine di raggiungere il massimo grado di benessere ovvero l’eudamonia intesa come un’attività “dell’anima in accordo con l’eccellenza”.

In psicologia per spiegare il costrutto di “Agathoi” dobbiamo fare ricorso alle varie fasi dello sviluppo e tenere conto degli influssi intergenerazionali e transgenerazionali. Si teorizza, infatti, che l’eudaimonia, a differenza dell’edonia, sia un tipo più complesso di funzionamento positivo che implica la crescita personale ed è guidato dalla ricerca del significato anche se le prove esistenti che collegano l’eudaimonia allo sviluppo della personalità sono piuttosto scarse (Voevodina e Kostenko, 2023).

Martella e Ryan (2023)  collegano il  benessere eudaimonico al funzionamento psicologico e, in particolare, ai bisogni psicologici di base. Per funzionamento psicologico Tennant et al. (2007) intendono la realizzazione del sé e Keyes (2000), suddividendo la salute mentale in sentimenti positivi e funzionamento positivo, sottolinea che esso deve essere valutato per una piena comprensione della salute mentale e della prosperità umana. In generale, la ricerca ha inteso il funzionamento psicologico come l’avere un significato ed uno scopo nella vita (Stone et al., 2018) che potrebbe essere tradotto su come il soggetto vive la propria vita e se determinati fattori ed esperienze chiave sono presenti nella sua esistenza (Huppert et al., 2009 –  Martela e Sheldon, 2019 – Ryan et al., 2008).

Il funzionamento psicologico si concentra, quindi,  sull’identificazione dei fattori psicologici universalmente richiesti di cui gli esseri umani hanno bisogno per vivere bene e sentirsi bene: esperienze psicologiche considerate centrali per il benessere, il buon andamento e la prosperità umana (Martela e Ryan, 2023). Tra i fattori che contribuiscono al buon funzionamento individuale vi sono i bisogni psicologici di base così come individuati da Ryan e Deci (2000 – 2017): autonomia, competenza e relazione. Autonomia è da riferire alla sensazione che il proprio comportamento sia auto-approvato e volitivo, competenza al sentirsi efficaci ed efficienti nelle proprie azioni, e  relazione  al sentirsi connesso e curato da altri importanti.  Gli stessi autori insieme a Ryff hanno collegato il benessere eudaimonico con la teoria dello sviluppo di Erikson (1959) che indicava l’adolescenza come il periodo nel quale risolvere questioni relative all’identità personale e alla direzione nella vita.

L’elaborazione adolescenziale, l’autonomia, la competenza e la relazionalità, però, cosi come descritto da Cigoli (2007), deve essere preceduta da tutte le fasi e i processi che avvengono nel passaggio da una generazione ad un’altra sia a livello intergenerazionale che trans generazionale.  Sempre Cigoli (2007) sostiene che i passaggi generazionali siano contraddistinti da tre processi che portano all’acquisizione della conoscenza di sé e all’autorealizzazione. Egli identifica le suddette fasi nel trasmettere, nel tramandare e trasgredire. Le generazioni precedenti trasmettono il patrimonio genetico e l’eredità di beni e di status socio-economico; tramandano il nome, la storia familiare e generazionale con i relativi valori. I figli durante il periodo adolescenziale, attraverso il trasgredire, rielaborano ciò che gli è stato tramandato in modo da rilanciare il patto generativo così come descritto da Bowen (1978) attraverso il concetto di differenziazione del sè.

Lo scambio generazionale, inoltre, si svolge lungo due assi: il pathos e l’ethos. Il primo è sostenuto dalla fiducia e dalla speranza che le generazioni precedenti devono trasmettere a quelle successive, mentre il secondo è rappresentato dalle esigenze etiche e di giustizia.

Le famiglie di origine sono importanti per il benessere emotivo dei figli ed è probabile che la loro influenza duri fino all’età adulta riuscendo ad influenzare anche le loro successive relazioni sentimentali (Ogan et alt., 2023). Villalba et alt. (2023) hanno ribadito, ai fini della formazione dell’identità, l’importanza della ricerca delle origini nei casi di adozione e Cancrini (2020) ha sviluppato un modello clinico che prevede l’integrazione tra la storia della famiglia di origine e quella della famiglia adottiva.

Dalgaard et alt. (2023) sostengono che i bambini in affidamento sono psicologicamente vulnerabili e mostrano maggiori problemi sociali, di sviluppo e comportamentali rispetto a quelli che vivono con la famiglia di origine.  Ross et alt. (2023) hanno associato l’imprevedibilità familiare vissuta durante l’infanzia con l’ansia e la depressione. Kirikian et alt. (2023) hanno collegato l’invischiamento delle famiglie di origine con le esigenze di maternità e di come gli stili genitoriali successivi siano fortemente contraddistinti da bassi livelli di fiducia. 

Cigoli e Tamanza (2009) hanno sviluppato l’intervista clinica generazionale la quale ha lo scopo di rispecchiare i processi mentali che si sviluppano a partire dalle origini e la loro influenza nelle varie fasi del ciclo di vita. Byng Hall (1995),  a tal proposito,  ha teorizzato il costrutto di family scripts ovvero i copioni familiari che guidano le azioni individuali.  E’ a partire dalle origini ovvero dal passaggio generazionale che l’individuo costruisce i propri family scripts che durante la fase adolescenziale rilancia, utilizzando il trasgredire, attraverso la differenziazione del sé. Le origini all’interno dell’intervista sono state  classificate:

  1. Feconde dalle quali proviene il sentimento che la vita ha valore ed è degna di essere vissuta al di là delle mancanze, dei torti, dei dolori che inevitabilmente accompagnano la storia familiare. Tipica di questo tipo di origine è l’identificazione plurima attraverso la quale è possibile trovare risorse in più membri familiari. I sentimenti che le accompagnano sono incentrate sulla fiducia e la speranza nei confronti dei legami con gli altri e dalla presenza dell’eticità;
  2. Critiche nelle quali all’interno della storia familiare sono presenti difetti e mancanze rilevanti come l’assenza e l’abbandono da parte di membri significativi, la marginalità di qualcun altro e persino il ripudio di uno o più membri. In queste famiglie sono presenti crisi esplosive e silenti nelle relazioni tra i genitori e le rispettive famiglie di origine. Malgrado ciò i legami sono critici e non fallimentari poiché non mancano identificazioni positive con alcuni membri familiari ed è presente il sentimento di vitalità e la possibilità di bonificare le origini;
  3. Fallimentari in cui i traumi presenti o tramandati dalle generazioni precedenti (abusi sessuali, psicologici e materiali) non hanno nessuna possibilità di essere bonificati attraverso la successiva rielaborazione.  I sentimenti sono orientati verso la disperazione e la sfiducia profonda nei legami, da una profonda angoscia e dal terrore.

Discussione

L’analisi dell’evoluzione del concetto di benessere eudaimonico, sia dal punto di vista contestuale sia da quello degli attributi,  mette al centro la persona come portatrice di bisogni  (attese, desideri, intenzioni e scopi) e nel suo essere relazionale ovvero la capacità di agire all’interno del contesto di vita facendo legame con gli altri. D’altronde, se andiamo all’origine del concetto di benessere eudaimoinico esso   non corrisponde al piacere ma è il bene ultimo dell’uomo.  Il benessere non è la ricchezza cosi come gli onori poiché la prima è un mezzo per raggiungere altro, e i secondi, la modalità con cui superare le proprie insicurezze. Per Aristotele (334 A.C.) bisogna essere Agathoi    cioè diventare persone valide al fine di raggiungere il massimo grado di benessere ovvero l’eudamonia intesa come un’attività “dell’anima in accordo con l’eccellenza”. Se l’anima fa riferimento alle qualità o caratteristiche personali, l’eccellenza può essere raggiunta attraverso la messa in atto di azioni che lo stesso Aristotele (330 A.C.) nella “Poetica” definisce praxis ovvero lo svolgimento di un’azione collegata ad un  mito. Partendo da questi presupposti, sono stati riclassificati gli attributi del concetto (fig. 6) all’interno di tre categorie interconnesse le une con le altre: caratteristiche personologiche, speranza e qualità etiche.

Conclusioni

L’analisi del contesto e degli attributi del concetto di benessere eudaimonico, così come sono stati classificati nella fig. 6, indicano che l’individuo con un buon demone deve possedere alcune caratteristiche personologiche tipiche che devono essere sostenute dalla speranza e dalla fiducia avendo ben chiaro che le sue azioni devono tenere conto di ben precise regole etiche. Ciò comporta il possedere una personalità eudaimonica. In psicologia la personalità  è definita come un’organizzazione di modi di essere, di conoscere e di agire che assicura unità, coerenza e continuità, stabilità e progettualità alle relazioni dell’individuo con il mondo (Caprara, Gennaro, 1994).  Ad oggi in letteratura è largamente condiviso che essa  sia  una costruzione che occorre nel corso dello sviluppo dell’individuo attraverso continue interazioni tra individuo e ambiente. E’ nell’ambito di quest’ultimi che vanno ricercate le determinanti del benessere e non è un caso che tutte le teorie sullo sviluppo insistono sulle relazioni e su i legami familiari. Nella tradizione psicoanalitica sono le relazioni madre-bambino a determinare lo sviluppo successivo dell’individuo sull’asse della sanità e della patologia. Affinchè vi sia uno sviluppo sano è necessaria per Winnicott (1971) una Good Enough Mother ovvero una madre che si sappia sintonizzare sulle esigenze del figlio sviluppandone l’autonomia senza per questo tralasciare il suo ruolo genitoriale di guida.  Al contrario, in letteratura è stata descritta una madre castrante che tende a realizzarsi progettando e guidando la vita del figlio. Allo stesso modo, Bolwby sostiene che lo stile di attaccamento infantile influenzerà le future relazioni e i futuri legami individuali. Affinchè l’individuo possa sviluppare l’autonomia, possa essere capace di autodeterminarsi, possa condividere le sue esperienze con gli altri, cosi come messo in luce da Ryan e Deci (2000), deve aver avuto sul piano intergenerazionale esperienze infantili positive. La ricerca sia clinica sia non clinica documentano una correlazione tra le relazioni infantili e l’adattamento in età adulta. In particolare, alcune ricerche (Luecken, 2000 – Parker, 1983 – Richman e Flaherty, 1986 – Kessler, Davis e Kendler, 1997) hanno messo in luce che la mancanza di attenzione e affetto durante l’infanzia porta a grave ostilità interpersonale, depressione e altri disturbi psicologici in età adulta (An e Cooney, 2006). Da ciò deriva che il benessere psicologico è  frutto della strutturazione dei legami familiari e, all’interno di quest’ultimi, non possono essere tralasciati, così come messo in luce da Erickson (1959), le transizioni familiari e le spinte generative.  Infatti,  essendo coinvolti i genitori non si possono trascurare le spinte e i legami transgenerazionali quelli che Scabini e Cigoli (2000) individuano nel famigliare come ciò che “lega tra di loro i vivi e i morti, le generazioni passate e quelle future”.  In sostanza ai fini del benessere individuale non può essere tralasciata la transgenerazionalità ovvero ciò che viene trasmesso e tramandato dalle generazioni precedenti a quelle future e la capacità di quest’ultime di rielaborare attraverso la trasgressione la loro storia generazionale. I dati di ricerca attuali (Simons, Whitbeck, Conger e Wu, 1991; Whitbeck et al., 1992; Thornberry,Freeman-Gallant, Lizotte, Krohn, e Smith, 2003; Belsky, Jaffee, Sligo, Woodward, e Silva, 2005) indicano che i modelli genitoriali tendono ad essere replicati da una generazione all’altra.

Le ricerche, inoltre,  indicano che anche la speranza è soggetta alla trasmissione generazionale. Secondo Snyder (2000) la speranza ha origine da caregiver attenti. Bernardo (2015) ha distinto la speranza interna da quella esterna arrivando alla conclusione che la prima sia fortemente influenzata e dipendente dalla seconda. Le ricerche successive alle teorizzazioni di Snyder (2000)  confermano,  ad esempio, che la speranza degli adolescenti è associata agli stili di attaccamento (Jiang et al., 2013) e  a stili genitoriali reattivi (Heaven e Ciarrochi, 2008). Cheung e Yeung  (2020) hanno messo in relazione la gratitudine dei genitori con la speranza degli adolescenti arrivando alla conclusione che correli positivamente in assenza dell’anomia adolescenziale e, quindi,  favorisce l’integrazione sociale. Ho et alt. (2021) nel cercare di capire se lo status socio economico familiare influenzi la speranza in adolescenza hanno scoperto che quest’ultima era maggiormente influenzata dal supporto emotivo dei genitori.

Tutti questi dati indicano che al fine dello svilupparsi e dello strutturarsi di una personalità eudaimonica i passaggi generazionali siano fondamentali. Forse all’interno delle spinte intergenerazionali e trans generazionali è possibile trovare “l’Anima” indicata da Aristotele (394 D.C.) come il parametro base del benessere individuale.  Ai fini dell’eudamonia i passaggi generazionali nel modello proposto da Scabini e Cigoli (2000) si basano su due assi la fiducia e la speranza, da un lato, e la giustizia, dall’altro. Ciò significa che le generazioni precedenti devono infondere fiducia e speranza di poter riconquistare il benessere perduto e, nel contempo, nel poter fare legame con l’altro all’interno di un contesto contraddistinto dalla giustizia.

Prof. Mariano Indelicato, Presidente PSP-Italia