A cura del Prof. Mariano Indelicato, Presidente Pronto Soccorso Psicologico-Italia, e della Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica, Responsabile Settore Comunicazione Pronto Soccorso Psicologico-Italia.
“Ci sono sintomi che si mettono al servizio del progetto dell’anima affinché la persona impari a rispettare sé stessa. Una visione troppo meccanicistica, in tanti casi, cura i sintomi come sganciati dai vissuti individuali; in realtà dietro ogni sintomo c’è una verità che si fa strada, ed è nella storia di vita e nella narrazione del soggetto, che ne vanno ricercati i significati”.
I Sintomi appaiono all’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, e sconvolgono l’apparente svolgersi della nostra quotidianità, interrompendo la narrazione della nostra storia: segnando un confine tra “un prima” e “un dopo”, spezzano la linearità dello svolgersi degli eventi, che all’improvviso devono seguire strade sconosciute e intraprendere percorsi impervi pieni di ostacoli, nelle quali ogni piccola buca diventa un baratro difficile da saltare, immobilizzati da paure fantasmagoriche. All’improvviso le colline diventano cime inaccessibili, difficili da scalare, e i pensieri diventando ossessivi rimbombando in testa alla ricerca di inutili “perché”.
“Cosa mi sta succedendo? Perché non riesco a fare questo o quell’altro? Perché tutto diventa difficile? Perché il mio cuore batte più forte? Perché mi viene difficile uscire di casa? Perché non posso andare ad una festa, piuttosto che ad un centro commerciale, o frequentare una piazza? Perché strade che ho sempre percorso all’improvviso diventano pericolose? Perché non riesco alzarmi dal letto? Perché tutto diventa buio davanti a me?”, etc….
“Perché” ed ancora “perché”, alla ricerca di risposte difficili da trovare. Questa infatti è la grande sfida contenuta all’interno dei sintomi: essi sono il luogo e il mezzo di espressione dell’ emotività, che non può essere compresa all’interno della razionalità.
Per tale motivo la ricerca delle cause e spiegazioni logiche diventa inutile: il linguaggio emotivo segue strade sue proprie, e non è sottoponibile ad una trama tradizionale con un inizio, uno svolgimento ed una fine ben precisi e comunemente comprensibili.
C. G. Jung, nella sua lettura dei processi psichici, sosteneva che “quando si ha a che fare con cose psichiche, il chiedersi perché si verifica la tal cosa, non è produttivo”, in quanto non è produttivo adottare una logica causale quanto piuttosto ricorrere ad una spiegazione finalistica che vede i sintomi come dei “simboli” che tentano, con l’ausilio di materiali già esistenti, di caratterizzare o di individuare un determinato obiettivo o piuttosto una determinata linea di sviluppo.
Anche K. Jaspers, sulla stessa scia, sosteneva che nel campo dei disturbi psicologici e delle malattie mentali, non si può adottare l’indagine causale tipica delle scienze della natura, perché la psicopatologia non è un “oggetto naturale”, ma un “processo”. In ambito fenomenologico il sintomo rinvia ad una causa che non si dà se non presupponendola a partire da una teoria; pertanto i segni vanno considerati come “significati” che esprimono qualcosa, anche se questo qualcosa è fondamentalmente diverso dall’esperienza comune.
Quante volte al risveglio tentiamo di trovare una tessitura, una storia compiuta e sensata ad un sogno che abbiamo fatto la notte precedente? Quante volte restiamo impotenti e pieni di dubbi? Senza voler esagerare, tutti i tentativi spesso risultano vani. Anche i Sogni, infatti, sono l’espressione della nostra emotività e tutti i tentativi di razionalizzarli cadono nel vuoto. Non è un caso che spesso vengono letti come dei “segni” che provengono da un mondo lontano più o meno sconosciuto, ed abbiamo bisogno della cabala per interpretarli e cercare risposte più o meno plausibili. Essi fanno parte della “magia” della nostra esistenza, di quella parte di noi che il più delle volte implica scelte e comportamenti che non possono essere normalmente spiegati. L’”incomprensibile” fa parte del nostro essere: regala sensazioni ed emozioni, positive o negative che siano, indipendentemente dalle storie o dalle narrazioni di cui li condiamo, nel tentativo di spiegarceli e spiegarli.
Anche i Sintomi, al pari dei Sogni, sono dei “segni inequivocabili che esprimono l’inesprimibile”: parlano attraverso il corpo, lasciandolo tante volte spaesati e pieni di dubbi, alla ricerca di introvabili sensi. Il termine Sintomo proviene dal greco e si traduce con “circostanza”, “avvenimento fortuito”, ed in termini medici è il “segno”, l’espressione, il segnale di un’anomalia o di un diverso funzionamento di un organo, di un apparato o di un sistema di comportamenti.
Per S. Freud e la psicoanalisi classica il Sintomo “sarebbe il sostituto di una soddisfazione pulsionale che non ha avuto luogo”. Esso è il risultato della rimozione di contenuti indesiderabili e di desideri indicibili che, restando insoddisfatti, si esprimono come angoscia nelle più svariate forme psicopatologiche.
È il “non godimento”, per J. Lacan, che diventa segno di un dominio significante e del linguaggio che viene inibito alla meta, cioè alla soddisfazione della pulsione. Più precisamente, adottando la terminologia saussuriana, egli tratta il sintomo come “un segno linguistico che funge da significante di un elemento inconscio, a sua volta trattato come un segno linguistico (essendo l’inconscio strutturato come un linguaggio).
Se è cosi, l’espressione corporea o mentale è il segno che comunica un “disagio di tipo emotivo”, e richiama significati più profondi della semplice messa in atto del comportamento sintomatologico o patologico. Significanti e determinanti che trovano estrinsecazione metaforica nelle modalità, nei tempi e nella tipologia dei “segni” presentati. I Sintomi sono “espressione simbolica di un disagio”, e pertanto bisogna leggerli come il tentativo che il soggetto compie per comunicare a sé stesso e al mondo circostante una sofferenza che rimane espressa sul piano fisico, ma che ha radici nel piano psicologico inconscio.
Lo stesso C. G. Jung scrive: “un simbolo non spiega, ma accenna, al di là di sè stesso, ad un significato trascendente, inconcepibile, oscuramente intuito, che le parole del nostro attuale linguaggio non potrebbero adeguatamente esprimere”.
È infatti solo all’interno di un processo terapeutico che si possono scoprire i “significati” che i propri sintomi esprimono, attraverso il ricorso ad approcci di tipo narrativo.
Facendo riferimento alla pratica clinica, al paziente non viene chiesto altro che “raccontare” la propria problematica, il proprio disagio. D’altronde, sin dalle prime tappe evolutive, la “traduzione in storie della propria esperienza di vita” è ciò che rende possibile la strutturazione del proprio pensiero, del proprio Sé: “l’identità è costituita dall’insieme dei racconti collegati cronologicamente tra loro, ed i racconti sono delle descrizioni degli eventi di vita e delle loro possibili soluzioni” (J. Bruner).
Secondo A. Adler “ciascuno di noi costruisce una storia che viene interiorizzata e rimane in perenne evoluzione per dare uno scopo ed un senso di unità alla propria vita”;
D. Vallino sostiene che “la narrazione contribuisce ad estrarre l’individuo dal flusso travolgente della vita in continua trasformazione, e a dotarlo di una forma con la quale si può identificare”;
sulla stessa scia G. L. Barbieri riconosce che “nel sistema narrativo è possibile annullare il senso di dispersione del proprio Sé, e nelle parole ognuno può ritrovare un centro rassicurante cui appoggiare i nuclei del proprio Sé in continua evoluzione”.
Ritenendo dunque che l’essere umano ha una “attitudine o predisposizione a organizzare l’esperienza in forma narrativa” poiché sente il “bisogno di ricostruire la realtà dandogli un significato specifico a livello temporale o culturale”, è chiaro che anche le esperienze sintomatologiche vengono narrate (M. Andolfi).
I pazienti in terapia raccontano la loro storia così come l’hanno organizzata ed interiorizzata per “razionalizzare” i sintomi o le difficoltà che stanno vivendo nel qui ed ora della loro vita psichica ed interazionale. Spesso essi arrivano in terapia ipotizzando e pensando che la propria storia sia priva di un senso compiuto, ed a volte (come ad esempio nella depressione) che la propria stessa esistenza non abbia un senso.
È attraverso un’”analisi della narrazione” che si possono trovare i “significati simbolici” che si nascondono dietro i sintomi, ed attraverso la ri-narrazione che il terapeuta fa della storia del paziente, restituendogliela in una “forma nuova maggiormente comprensibile soprattutto accettabile” che il vissuto del paziente acquista una significazione: “il cambiamento allora diventa funzione del passaggio dal piano della razionalità a quello emotivo”.
Ma così come ogni storia, ogni narrazione, anche il Sintomo esprime ed è portavoce di “valori simbolici” che trovano espressione all’interno di un “contesto di riferimento”: compito del terapeuta e inserire la storia del paziente all’interno di una meta-analisi simbolica.
È impossibile leggere le storie individuali al di fuori delle proprie storie relazionali e/o dei sistemi di riferimento in cui sono inserite: “senza l’identificazione del contesto l’azione osservata è del tutto priva di senso” (G. Beatson). Il contesto, come messo in risalto da numerosi autori, è la matrice dei significati ed è direttamente subordinato al senso della vita, intendendo con quest’ultimo ciò che la persona riesce a percepire, scoprire e realizzare per la propria esistenza. Il senso della vita è direttamente collegato con il contesto culturale in cui l’individuo è inserito, frutto di quello che viene trasmesso e tramandato dalle generazioni precedenti e dalle modalità di rielaborazione individuale.
In termini gestaltici la storia individuale costituisce la Figura che risalta da uno Sfondo e, all’interno di quest’ultimo, attinge ed assume significato. Figura e Sfondo sono strettamente legati in quanto perderebbero di significato l’uno in assenza dell’altro: la Figura viene messa in risalto dallo Sfondo, e lo Sfondo è tale solo in presenza della Figura. Allo stesso modo il contesto è lo sfondo in cui risalta la storia individuale di ogni soggetto, che attinge e assume significati all’interno di quel determinato contesto.
A tal proposito G. Bateson afferma che “senza l’identificazione del contesto non si può capire nulla, l’azione osservata è del tutto priva di senso finché non viene classificata come gioco, minaccia o quant’altro. Il contesto è la matrice dei significati”.
O ancora, detto in altri termini, un “segno” per essere definito “sintomo” ha bisogno di una narrazione che descriva, ad esempio, delle sensazioni corporee: un atleta durante una prestazione sportiva raggiunge i 180 battiti cardiaci al minuto, così come avviene durante una qualsiasi manifestazioni dell’ansia; eppure questi cambiamenti fisici vengono descritti, interpretati e narrati in maniera del tutto diversa da un atleta e da un soggetto ansioso. Il sintomo, a differenza del segno, non è un dato oggettivo e in quanto tale non può essere misurato con strumenti tecnici (pressione, battito cardiaco, ritmo della respirazione, saturazione, etc.), ma è un elemento “soggettivo”, ovvero si presenta come un’elaborazione del paziente su una serie di sensazioni corporee: “ho mal di testa” , “mi sento la febbre”, “ho i nervi a pezzi”, e dipende dai significati che il paziente gli attribuisce (pocesso di meta-cognizione).
“Il Segno è un fenomeno oggettivo che l’esaminatore assume come indice di un processo patologico, mentre il Sintomo è un fenomeno soggettivo avvertito dal soggetto e che va poi decodificato” (K. Jaspers); come manifestazione di un processo sottostante il sintomo è comprensibile soltanto in una logica diversa da quella meramente causale.
E’ all’interno della narrazione che si trovano i riferimenti metaforici delle manifestazioni patologiche.
In un’ottica narrativa di intervento il Tempo acquisisce un’importanza fondamentale: il tempo del processo terapeutico è quello in cui si analizza il presente, che è frutto delle esperienze passate, per proiettarlo nel futuro.
Nello specifico il “primo tempo” è quello della richiesta da parte del paziente dell’intervento terapeutico: il “come mai oggi e non ieri o domani o un anno fa?”. Rispondere a questa prima domanda significa comprendere sia le attese che si nascondono dietro la richiesta, sia quando la disfunzionalità è diventata talmente ingestibile per lo stesso paziente, o per le persone che gli stanno accanto. Il “tempo della richiesta” deve essere attentamente attenzionato perché è il tempo in cui il paziente vuole passare all’azione, o comunque si tratta di un primo passo che toglie il paziente della posizione in cui è stato fino a quel momento.
Altro tempo importante è quello che vede “la comparsa della sintomatologia” che ha portato il paziente a richiedere l’intervento; per cui risulta fondamentale la domanda inerente il “quando” il sintomo si è presentato per la prima volta e “in quale fase di ciclo vitale” del paziente: ogni individuo durante la sua esistenza attraversa varie fasi vitali ed è in esse che spesso il sintomo si inserisce.
J. Haley sostiene che i sintomi compaiono quando c’è “una deviazione, un’interruzione del normale svolgimento del ciclo vitale: il sintomo è il segnale che il soggetto ha difficoltà a superare uno stadio di questo ciclo”.
Nel racconto del paziente viene dunque identificato “un prima” e “un dopo” dell’insorgenza del sintono; generalmente quest’ultima ha una precisa collocazione temporale, ovvero un “tutto è andato bene fino a quando…”. È nei cambiamenti avvenuti in questa fase e nei cambiamenti relazionali che hanno preceduto l’insorgenza del sintomo che si trovano spesso “le determinanti emotive” del sintomo stesso, in quanto quest’ultimo è “espressione metaforica dei vissuti emotivi”.
Il terapeuta nella narrazione deve sempre tenere conto della “fase di ciclo vitale” in cui si inserisce la sintomatologia del paziente:
ad esempio, i disturbi della condotta alimentare tendono a presentarsi durante la fase post puberale o adolescenziale, poiché è in quel momento che il corpo ed i cambiamenti fisici devono essere elaborati al fine di mantenere stabile la propria identità. In questo senso, la funzionalità del sintomo è tale nella misura in cui rappresenta “la modalità migliore” che la persona ha saputo trovare per mantenere integro il proprio equilibrio sistemico e la propria identità personale, di fronte ad una minaccia percepita come eccessivamente invalidante;
allo stesso modo un attacco di panico che per la prima volta avviene durante la fase di svincolo dalla famiglia di origine potrebbe, con molta probabilità, indicare una difficoltà a lasciare il “nido originario”, ovvero la propria casa ed i propri genitori.
Il Luogo in cui si presenta frequentemente il sintomo è un altro parametro da analizzare, poiché anch’esso contiene informazioni importanti: se un attacco di panico, ad esempio, si presenta fuori casa potrebbe indicare quel bisogno di protezione che solo dentro le mura domestiche si può trovare; se, al contrario, si presenta dentro casa potrebbe essere un indicatore di difficoltà relazionali all’interno della famiglia.
L’”analisi combinata di tempo e luogo” permette di trovare ulteriori significati che il sintomo esprime e cela allo stesso tempo: “una signora che racconta di aver avuto degli attacchi di panico subito dopo il matrimonio che non gli permettono di uscire più di casa e nel contempo, nel raccontare la sua storia, riferisce che ha un marito estremamente geloso che ogni volta che lei esce, anche per fare la spesa, la sottopone ad incessanti interrogatori, con grande probabilità, attraverso il sintomo, evita di mettere in discussione ed in crisi il proprio matrimonio”. Purtroppo, però, la soluzione sintomatologica diventa il problema vero che deve essere affrontato.
Concludendo, sono tante le caratteristiche che vanno analizzate nel tentativo di trovare il significato che i sintomi esprimono: qui basta sapere che “il sintomo è una forma di comunicativa che utilizza il sistema emotivo per esprimere la propria sofferenza”. La ricerca delle cause risulta tante volte inutile ed è frutto di una visione deterministica; invece, il sintomo contiene l’espressione metaforica della sofferenza e del contrasto emotivo sottostante. Bisogna leggere il sintomo come una poesia o un brano musicale, analizzandone la sintassi e la sinossi se si vuole costruire un progetto terapeutico teso al cambiamento. Gli strumenti razionali non solo non bastano ma, spesso, risultano addirittura fuorvianti.
Il Pronto Soccorso Psicologico-Italia, forte di quanto sopra esposto, forma i suoi professionisti all’adozione di “approcci narrativi” in cui la storia del paziente diventa un racconto da saper leggere in maniera adeguata, in modo da poterlo inserire all’interno dei contesti più appropriati nel percorso di ricerca dei significati emotivi profondi.
Il sintomo è un bene prezioso che non va sperperato o ridicolizzato dalla razionalità, ed il cambiamento è possibile nella misura in cui si riesce ad accettare la propria irrazionalità.
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