Autolesionismo non  suicidario (NSSI)

“Il suicidio è l’estremo tentativo di migliorare la propria vita.” Michelangelo

A cura della Dott.ssa Daniela Cusimano, Psicologa Clinica, Coordinatrice Pronto Soccorso Psicologico-Italia

Abstract

The term Non-Suicidal Self-Injury (NSSI) refers to self-inflicted, direct and intentional behaviour that aims to damage body tissue without conscious suicidal intent. This behaviour portrays a severe public health problem worldwide, particularly during adolescence. The onset of the behaviour is generally found between 11 and 15 years of age, and approximately 23% of adolescents report having voluntarily injured themselves at least once in their life, while 19% in the previous year. During adolescence, difficulties with peers represent essential risk factors for implementing and maintaining these behaviours over time. However, so far, no study has analyzed the possibility that adolescents who engage in self-harm behaviours may, in turn, be at greater risk of having problems with peers. This is surprising given the extensive theoretical work on developmental psychopathology that proposes possible transactional effects between environmental and social factors and mental health problems. It is, therefore, essential to understand whether peer problems and self-harm behaviour reinforce each other over time to prevent these effects from intensifying and resulting in a negative vicious cycle that is difficult to break.

Riassunto

 Con l’epressione  autolesionismo non suicidario (Non-Suicidal Self-Injury – NSSI) si fa riferimento al comportamento autoinflitto, diretto e intenzionale che mira al danneggiamento dei tessuti corporei senza un intento suicidario cosciente. Questo comportamento ritrae un serio problema di salute pubblica diffuso in tutto il mondo, in modo particolare durante l’adolescenza. La comparsa del comportamento si riscontra, in genere, tra gli 11 e i 15 anni di età  e circa il 23% degli adolescenti riporta di essersi ferito volontariamente almeno una volta nella vita, mentre il 19% nell’anno precedente. Durante l’adolescenza le difficoltà con i pari raffigurano importanti fattori di rischio per la messa in atto e il mantenimento di questi comportamenti nel corso del tempo. Tuttavia, finora nessuno studio ha analizzato la possibilità che gli adolescenti che mettono in atto comportamenti di autolesionismo possano, a loro volta, essere maggiormente a rischio di avere problemi con i pari. Ciò è sorprendente dato l’ampio lavoro teorico sulla psicopatologia dello sviluppo che propone possibili effetti transazionali tra fattori ambientali e sociali e problemi di salute mentale. Risulta quindi importante capire se i problemi tra pari e il comportamento di autolesionismo si rafforzano a vicenda nel corso del tempo al fine di evitare che questi effetti si intensifichino e si traducano in un circolo vizioso negativo difficile da interrompere.

Autolesionismo non suicidario

Introduzione

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità il suicidio viene considerato  come un problema complesso, non ascrivibile ad una sola causa o ad un motivo preciso. Lo possiamo fare derivare da una complessa interazione di fattori biologici, genetici, psicologici, sociali, culturali ed ambientali. Il termine suicidio deriva dal latino suicidium, e  letteralmente significa  uccisione di se stessi, pertanto si intende l’atto col quale una persona si procura volontariamente e consapevolmente la morte. Esso non è altro che la morte causata da un atto intenzionale di autolesionismo ideato per essere letale. Il comportamento suicidario comprende il suicidio compiuto, il tentato suicidio e l’ideazione suicidaria. Le ricerche sul suicidio hanno visto che è correlato ad una malattia mentale o  a disturbi dovuti all’uso compulsivo di sostanze come alcool o droghe. L’abuso di sostanze rende anche più probabile che si arrivi ad agire per pensieri di suicidio impulsivi o comportamenti a rischio. Le persone  che muoiono per suicidio, rappresentano solo una frazione di quelli che ci pensano o che arrivano a compiere almeno un tentativo: le statistiche hanno evidenziato che i tentativi potrebbero essere tra 8 e 25 per ogni morte effettiva. I fattori di rischio che determinano un tentato suicidio negli adulti sono depressione e uso di sostanze stupefacenti. Il suicidio viene vista come una tragica risposta alle situazioni di vita stressanti, e tanto più tragica perché prevenuto. Spesso il soggetto a rischio di suicidio si presenta con pensieri identificabili con le seguenti espressioni: “Sono triste, depresso”, “Non posso più andare avanti così”, “Sono un perdente”, “Gli altri staranno meglio senza di me”. Un altro fattore di rischio del suicidio è che legato a sentimenti di disperazione, rabbia incontrollabile; alla ricerca di vendetta, all’agire in modo imprudente o rischioso e senza meditare sulle conseguenze di un certo comportamento, al sentirsi intrappolati e sentirsi senza via d’uscita. La conseguenza può essere il consumo di alcol e droga; l’allontanamento dalle amicizie, dalla famiglia, e dai contatti sociali; può manifestare ansia, agitazione e disturbi del sonno sono sempre identificabili in presenza di rischio di suicidio. La persona, con pensieri suicidari ,riferisce dai suoi racconti che nota cambiamenti marcati del tono dell’umore, mancanza di motivazione nel vivere e della non identificazione del senso della vita.  Il suicidio si può prevenire. La maggior parte degli individui con rischio di suicidio vuole assolutamente vivere; costoro non riescono, cercano possibili alternative ai loro problemi. Emettono dei chiari segnali inerenti alla loro intenzione suicida, ma spesso chi è intorno non coglie il significato di tali messaggi, oppure non sa come rispondere alla loro richiesta d’aiuto. Molto spesso capita che chi parla del suicidio non induce nell’altro un proposito suicidario; al contrario, l’individuo in crisi e che pensa al gesto si sente sollevato dal poterne parlare, ed ha l’opportunità di sperimentare un contatto empatico. Il suicidio tormenta profondamente gli individui, le famiglie, i luoghi di lavoro, la comunità e la società nel suo complesso.Studi recenti hanno messo in evidenza che chi  perde una persona cara a causa del suicidio, rimane a lungo traumatizzato e sono molto spesso anch’essi a rischio di suicidio. La sfida della prevenzione del suicidio dovrebbe essere intrapresa dalla collettività.  Probabilmente, eseguendo un’indagine ad hoc sul suicidio che gioco hanno le emozioni negative, per cui  si puó fare molto di più. Dobbiamo provare ad essere empatici con il dolore mentale del paziente considerandolo l’unicità  della sua sofferenza. Ogni sforzo dovrebbe essere fatto per cambiare anche di poco il dolore da ‘intollerabile’ a ‘tutto  sommato sopportabile’; nel far questo l’enfasi dovrebbe essere sui bisogni psicologici frustrati dai quali origina la sofferenza del soggetto a rischio.Tutti gli operatori della salute mentale , e non,  che entrano in contatto con la popolazione generale, per fornire servizi di assistenza, consulenza e supporto, sono coloro che veicolano informazioni chiare e precise sul riconoscimento e sulla gestione del soggetto suicida. Chi pensa al suicidio non vuole realmente morire: desidera solamente porre fine ad un dolore insopportabile.  Urlare quel dolore a qualcuno significa cominciare a liberarsene.

Considerazioni

L’adolescenza , la possiamo considerare come quella  fase della vita in cui più alto è il rischio di suicidio. Le fantasie di morte negli adolescenti sono consuete come è avvalorato da quel che redigono nei loro diari dove i momenti di sofferenza o di odio per i genitori spesso divengono “vorrei morire”: sono fantasie che, anche se già divenute forti e articolate, possono anche dissolversi se l’ adolescente incrocia un nuovo legame di amicizia o di amore che lo appassioni tanto da ridonare alla vita senso e valore. E’ stato Freud a  mettere in evidenzia come i genitori tendono a  proiettare sui figli le loro aspettative ideali, ma quando queste previsioni sono corpulente, gli esiti saranno diversi, ma in ogni modo patologici perché queste tensioni vanno in conflitto o impediscono l’autentico sviluppo della personalità di un bambino che a quelle proiezioni deve sottostare. E’ in adolescenza che diviene necessario potersi determinare, che il disagio esplode. Il lavoro clinico sulla relazione genitori- figlio mostra che la proiezione più divulgata da parte del genitore, è la raffigurazione di un’immagine infantile di se stesso percepita come “abbandonica”. Se sul figlio giungerà presentato il proprio Sè infantile abbandonico, ogni cenno di malessere provocherà nella madre un’angoscia che l’ ostacola di capire i veri bisogni e di tramandare contenimento e incoraggiamento, ma più di ogni altra cosa la separazione diviene insopportabile. L’adolescenza dei figli obbliga ai genitori un riorganizzazione della distanza psichica, una distanza che permetta di condurre avanti il processo di separazione-individuazione, ma la madre simbiotica non può riconoscere la crescita che invece viene in ogni modo colpevolizzata ed impedita perché percepita come un  abbandono straziante. Secondo Ladame (1997) questa precarietà dei confini e la paura di uno superamento dei limiti che irrompe e che frena ogni autonomia, “ viene da molto lontano, ha dei precursori infantili che spesso hanno occupato lo spazio psichico interno richiedendo che il figlio fungesse da contenitore delle loro problematiche personali o di coppia.” Pertanto l’atto del suicidio ritrarrebbe allora un estremo tentativo di preservare l’integrità del Sé, di riacquistare il controllo sul proprio destino, riappropriandosi della propria vita proprio nell’attimo in cui si correre il rischio di restare privo.

Durante l’adolescenza, le relazioni con i pari divengono continuamente più importanti e gli adolescenti presentano una maggiore emotività sia ai segnali positivi che a quelli negativi. Appunto per questo, avere problemi con il gruppo dei pari, come ad esempio, comportamenti di bullismo, basso supporto da parte degli amici o ulteriori fattori di stress, può avere un effetto negativo sullo sviluppo socio-emotivo degli adolescenti, tanto più sulla sintomatologia internalizzante ed esternalizzante come depressione, aggressività. I modelli costruiti sull’interazione individuo-contesto raccomandano che i problemi tra pari possono essere incidenti fattori di rischio per lo sviluppo e il sostentamento del comportamento di NSSI nel corso del tempo. Secondo questi modelli, per i ragazzi che saggiano eventi di vita stressanti e contrastanti, come i problemi tra pari, il comportamento di NSSI può figurare una strategia di coping disadattiva per normalizzare una serie di stati affettivi negativi oppure per parlare con gli altri. In questo studio sono state prese in considerazione tre forme distinte di problemi con i compagni: vittimizzazione tra pari, stress all’interno della relazione amicale e solitudine. La vittimizzazione tra pari è una tra le esperienze più stressanti a cui i giovani possono essere esposti e risulta fortemente associata al comportamento di autolesionimo non suicidario. Infatti, gli studi esistenti raccomandano che gli adolescenti esposti a vittimizzazione tra pari accorrono un rischio maggiore di coinvolgimento nel comportamento di NSSI nel corso del tempo. Tuttavia, non solo le forme estreme di problemi tra pari come la vittimizzazione, ma anche le problematicità all’interno di relazioni diadiche positive o la scarsità di amicizie intime e di sostegno possono essere causa di stress interpersonale e potrebbero quindi condurre alla messa in atto di comportamenti di autolesionismo. E’ stato documentato che gli adolescenti che saggiano conflitti con gli amici o che raccontano interazioni negative all’interno di relazioni strette, riportano maggiori livelli di NSSI. Infine, gli adolescenti che cercano di formare e conservare relazioni positive con i pari, o che sono scontenti delle loro relazioni con i coetanei, tendono a raccontare sentimenti di solitudine più elevati, riconducendo un’insoddisfazione generale per le proprie relazioni sociali. Ricapitolando, poiché i problemi tra pari sono molto logoranti in particolare durante l’adolescenza, possono raffigurare un rischio per il successivo coinvolgimento nel comportamento di autolesionismo non suicidario. Tra le basilari teorie che chiariscono le ragioni per le quali le persone utilizzano l’autolesionismo, la più sostenuta dai ricercatori è quella della regolazione del distress e dell’ansia. Quando le emozioni negative divengono intollerabili, subentra in gioco il ferirsi come tecnica di riduzione della tensione. L’idea è che i gesti autolesivi vengono ripetuti per cercare di attenuare “stati psicologici” indesiderati. Si tratta di trasformare in sofferenza fisica , di conseguenza più reale e più facilmente gestibile, una sofferenza emozionale che non si sa come gestire.

L’autolesionismo lo possiamo vedere come un sistema per la regolazione emotiva: di fronte allo stato emotivo sgradito e vissuto come inaccettabile, il soggetto si colpisce cercando di riattivare uno stato accettabile. Si potrebbe affermare che la messa in atto di comportamenti autolesivi prenda la valenza di una strategia disadattiva di coping (Favazza, 1998). Scrutiamo, allora quali possono essere le varie dinamiche che conducono un soggetto a farsi del male.

Farsi del male per sentirsi meglio Quando il dolore emotivo è troppo forte, la persona può cercare di spostarlo su un piano fisico allo scopo di alleviare la sofferenza. La sofferenza fisica, agli occhi di chi pratica autolesionismo, è più reale e gestibile di una sofferenza emozionale. Occupandosi solo del dolore fisico, infatti, non si pensa, almeno provvisoriamente, a quello interiore .

Farsi del male per auto-punirsi In alcuni casi, l’autolesionismo è la manifestazione di un senso di colpa, per cui l’auto-ferimento diviene una forma di auto-punizione.

Farsi del male per ricercare attenzioni Farsi del male come forma di comunicazione. Quando la persona si avverte impercettibile, l’autolesionismo diviene un modo per richiamare l’attenzione su di sé.

I comportamenti di autolesionismo, come l’uso di sostanze, protendono ad istigare stati dissociativi che spesso conducono al sollievo tempestivo dal dolore. Tali comportamenti possono poi produrre dipendenza a causa del fatto che arrivano a ridurre emozioni intollerabili (Gatta et al., 2019). I ricercatori hanno identificato anche un’associazione tra autolesionismo e alessitimia ,che viene definita come la difficoltà nel discernere, nominare e delineare i propri stati emotivi. Gatta e colleghi (2019) hanno documentato che questi adolescenti non riescono a identificare ed pronunciare correttamente le loro emozioni e rilevano difficoltà nello stabilire rapporti interpersonali.

Polk e Liss (2007) hanno ipotizzato che tali deficit muovano l’adolescente ad usare il self-cutting come mezzo espressivo delle proprie sensazioni negative. Inoltre, Gatta e collaboratori (2019) dichiarano che gli adolescenti che praticano condotte autolesive soffrono spesso di patologie di tipo internalizzante come ansia e depressione o di tipo esternalizzante tra cui i disturbi della condotta e oppositivo-provocatorio. Gli adolescenti che mettono in pratica autolesionismo non suicidario sono persone fragili sul piano interattivo, emotivi alla frustrazione relazionale e con la percezione dell’ambiente esterno quale luogo rischioso da cui bisogna proteggersi (Gatta et al., 2019). La componente relazionale assume un ruolo molto importante e decisivo verso l’atto autolesivo. Questo, in particolare il self-cutting, potrebbe andare a controbilanciare la difficoltà di socializzazione e allo stesso tempo avere come significato aggiunto, più difficile da identificare, quello di chiamare nuovamente su di sé l’attenzione dell’altro. Per i genitori, che vengono a conoscenza che il proprio figlio si ferisce, è uno shock. Possono obiettare con sfiducia, preoccupazione e senso di colpa per non per non aver percepito la sofferenza del figlio. Ciò che vorrebbero, e che viene spontaneo, fare è sostenere “Non lo fare, non vedi che ti fai del male?”, ma è molto rilevante che questo non accada. Una frase errata può appesantire la situazione e produrre maggiore dolore e reazioni impulsive. È indispensabile, infatti, tentare di trovare il dialogo, fargli comprendere che i genitori non sono arrabbiati e scontenti. Ma farsi vedere empatici, dando loro tutto  il sostegno e il supporto indispensabile e analizzando con loro sulle emozioni e i pensieri che conducono l’adolescente che mette in atto l’autolesionismo (Manca, 2017). Insomma questi ragazzi, attraverso il corpo, stanno esprimendo qualcosa. È una comunicazione patologica, ma è sempre un’estrinsecazione del loro disagio interno. Il dialogo e l’ascolto sono la chiave per poter restituire la giusta importanza ai vissuti dei propri figli e per poter intraprendere un percorso di terapia.

conclusioni

Alla luce di quanto analizzato fino adesso sorge una domanda spontaea Cosa si può fare per predire l’autolesionismo e il suicidio? Se il rischio è difficilissimo da pronosticare con precisione a livello individuale, cosa si può fare? Molto.

In primo luogo, malgrado l’impossibilità di predire nei singoli casi, valutazioni cliniche attente e concrete e la ricerca del rischio sono ancora molto utili per accompagnare il trattamento e dare supporto alle persone che mostrano una crisi suicidaria o una malattia mentale, anche se va rammentato che queste valutazioni non danno una base per la previsione statistica di quali individui si impegneranno intenzionalmente in atti di autolesionismo o suicidio e quali no. In generale, tuttavia, una buona assistenza per la salute mentale, una buona comunicazione con le famiglie e un buon follow-up probabilmente concorrono a limitare il rischio di suicidio. Un buon trattamento della depressione nelle cure primarie (da parte dei medici di famiglia) è fondamentale, così come il trattamento dell’abuso di sostanze (incluso l’alcol) e la gestione di specifici disturbi mentali da parte di équipe specializzate. Nel disturbo di personalità emotivamente vacillante, le terapie psicologiche possono rivelarsi utili, compresi gli adattamenti della terapia cognitivo-comportamentale (CBT) e della terapia dialettico-comportamentale (DBT). Dal punto di vista della salute pubblica, l’educazione pubblica e le misure per ridurre l’accesso ai mezzi di autolesionismo sono interessanti ed efficaci. Mettere barriere in luoghi noti per il suicidio ad es. alcuni ponti, è un altro metodo efficace per sconfortare l’autolesionismo e il suicidio. Le ricerche hanno  messo in evidenza come un gran numero di persone che sono sconfortate in questo modo riconsidereranno i loro pensieri suicidi e moltissime non proseguiranno alla ricerca di altri mezzi di autolesionismo. Una buona assistenza primaria, un buon sostegno per la salute mentale e ponderate misure di salute pubblica sono, quindi, necessarie per combattere l’autolesionismo e il suicidio decretati. Queste misure dovrebbero essere rivolte a tutti, non solo a quelli che tengono pensieri di autolesionismo deliberato o suicidio. Molto spesso capita che  non ci sono segnali di avviso. Indispensabili sono anche gli orientamenti radicati al di fuori dei servizi sanitari: limitare i senzatetto, ricostituire il sistema di giustizia penale e perfezionare l’accesso all’assistenza sociale. Questo è fondamentale per tutti. Una persona su quattro manifesterà una malattia mentale ad un certo punto della vita ,quindi non ci saranno più  “loro”, ma ci sarà solo “noi”.

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Dott.ssa Daniela Cusimano, Coordinatrice PSP-Italia