cura della Dott.ssa Nicoletta Caruso, Psicologa Clinica, Pronto Soccorso Psicologico Italia
“Non saprei indicare un bisogno infantiledi intensità pari al bisogno che i bambini hannodi essere protetti dal padre” Sigmund Freud, 1929 – Il disagio della civiltà
Abstract
The father is the oldest, the first and, for the child, the only authority, from whose omnipotence the other social sources have originated throughout the history of human civilizations. This is how Freud defines the father figure, and if we think about it, the effects that the relationship with the father has – today – on the development of children is not at all different from how Freud described it years ago. What follows is a very brief historical review of the evolution of the father figure over time, up to the definition of “patronage” typical of today.
Riassunto
Il padre è la più antica, la prima e, per il bambino, l’unica autorità, dalla cui onnipotenza hanno avuto origine nel corso della storia delle civiltà umane, le altre autorità sociali. E’ così che Freud definisce la figura paterna e, se ci pensiamo, gli effetti che ha – oggi – il rapporto col padre sullo sviluppo dei figli, non è affatto diverso da come lo ha descritto Freud anni fa. Quella che segue è una brevissima rassegna storica sull’evoluzione della figura paterna nel tempo, sino ad arrivare alla definizione di “paternage” tipica dei giorni nostri.
Chi sono i papà?
Una domanda che potrebbe avere miliardi di risposte, tante, almeno quanto il numero di uomini sulla terra.
Perché di papà ce n’è uno solo, come la mamma e, buono o cattivo che sia, è unico così come l’esperienza che ognuno di noi fa della relazione con questa importante figura di riferimento.
Ma, procediamo con ordine.
Da un punto di vista etimologico, “il termine Padre deriva dal latino pater, per indicare il nome del capofamiglia, che, a sua volta, contiene la radice “pa” di pascere (nutrire, proteggere)”. (Roticiani, V., 2018).
“Giovanni Lobrano, e successivamente Jost Trier, ritengono possibile che la radice della parola derivi da pm, col significato di “proteggere” ed escludono che il significato di pater possa ricondursi alla funzione procreativa: è molto probabile che in origine questa parola non avesse nulla a che fare con il ruolo biologico del padre dal momento che, per lungo tempo dopo la comparsa dell’uomo, si ignorò il rapporto tra unione sessuale, gravidanza e parto e si attribuì la fecondazione della donna a elementi naturali, come la luna, un fiore, un frutto, una stella, la pioggia, il vento escludendo qualsiasi forma di partenogenesi.” (Quilici, M., 2010).
Proprio per questa inconsapevolezza, a maggior ragione, sulla paternità diventa difficile riuscire a tracciare l’evoluzione del termine.
Diversi studi storici sulle culture primitive, hanno dimostrato che è solo a partire dal Neolitico che “avviene la scoperta, da parte dei nostri progenitori, della connessione tra il concepimento e la procreazione e quindi, della presenza dell’elemento maschile nell’evento della nascita. Il concetto di paternità fisiologica nasce a causa dei cambiamenti di abitudini delle popolazioni primitive e dell’intensificarsi dell’attività dell’allevamento, che permise l’osservazione diretta dei comportamenti degli animali in cattività.” (Stramaglia, M., 2009).
Cambiamenti grandi e piccoli che, nel corso del tempo, hanno influenzato la società e, con essa, i ruoli e le dinamiche che si vengono a creare, di volta in volta, all’interno dei gruppi: abbiamo assistito al passaggio dalla famiglia tradizionale a quella moderna, dove, apparentemente, nulla è più al suo posto.
A tal proposito, “secondo la ricostruzione operata da di Bonito e Urso (2015), fino alla prima metà del secolo scorso ha continuato a dominare una famiglia fondata sull’indissolubilità del matrimonio, su una precisa divisione dei ruoli e su una maggiore centralità dei figli, ma nei decenni successivi è avvenuto un complesso mutamento sociale e culturale, caratterizzato dal processo di liberalizzazione della sfera sessuale e da alcuni passaggi normativi, in cui i ruoli e le funzioni dei suoi componenti hanno subito profonde trasformazioni, coinvolgendo tutti i ruoli, ma in particolare quello del padre, tanto da configurare una sorta di rivoluzione paterna che allontana la paternità dalle immagini più consolidate e tradizionali e che spesso si caratterizza con l’eccesso di attenzioni affettuose, premurose e continue, tipiche del maternage, e con una figura paterna sempre più compagno per i figli e sempre meno modello-guida.” (Crivellari, 2022).
Già nell’antica Grecia, la figura del padre assume un’importanza fondamentale: pilastro istituzionale ma anche umano verso il quale convergevano tutti gli affetti familiari, “come testimoniato dalla stessa letteratura, che a partire da Omero è stata attraversata dall’immagine di un padre forte, buono e talvolta nostalgico, come nel caso di Odisseo, le cui caratteristiche saranno secoli più tardi messe in discussione dalle trasformazioni sociali e, in particolare, dalle interpretazioni psicoanalitiche operate da Freud sull’Edipo Re di Sofocle, per poi riacquisire una centralità simbolica con la figura di Enea, costantemente delineata da una profonda responsabilità verso le passate e le future generazioni”. (Crivellari, 2022).
“Per la società romana, il padre rappresentava il più autorevole modello da seguire, un modello che basava la propria autorità sulla doppia nozione di pater familias e di patria potestas e che esercitava il proprio potere attraverso una serie infinita di diritti sanciti dalla legge, come lo ius exponendi, il diritto di esporre i figli neonati; lo ius vendendi, il diritto di
vendere il figlio come schiavo; lo ius noxae dandi, il diritto di cedere ad altri un figlio e infine, lo ius vitae et necis, il diritto di vita e di morte sul figlio”. (Crivellari, 2018).
“Con l’Illuminismo, la figura tradizionale del padre inizia a vacillare, arrivando talvolta a configurarsi come un’autorità distruttiva. L’infanzia comincia ad essere oggetto di attenzione, e la disciplina impartita agli scolari comincia a perdere, anche se non dappertutto, la brutalità umiliante di certe punizioni fisiche. Stanno cambiando anche i rapporti interpersonali all’interno della famiglia: figlie che non seguono più le tradizioni delle loro madri, donne troppo libere, gioventù sfaccendata. E in questo quadro la paternità assume fisionomie mai viste: il padre comincia a lasciare al figlio libertà di scelta.
La novità di rapporti nella famiglia nobile del Settecento è l’attenzione che viene rivolta ai figli. Attenzione che è spesso una forma di vezzeggiamento alla moda che rispecchia la frivolezza tipica della corte e dei nobili francesi. Tuttavia, la nuova comprensione del dominio paterno si riflette nella presenza sempre più rara del padre-tiranno e in quella sempre più frequente del padre amoroso e pieno di premure per il bene dei singoli membri della famiglia.”(Roticiani, 2018).
“L’Ottocento è, invece, il secolo del padre: non ci sono più solamente descrizioni del rapporto padre-figli dei ceti abbienti, della classe dominante ma finalmente si inizia a raccontare di padri e figli contadini, operai, borghesi.
In questa fase specifica, pur restando invariati i criteri di differenziazione sociale – economici
– il padre rappresenta l’unico aspetto omologante in quanto figura di riferimento familiare, sociale e valoriale.
Nell’Ottocento l’attenzione per l’infanzia si fa più acuta e fioriscono i trattati di educazione e pedagogia. Da più parti si manifesta un’attenzione e un amore del tutto nuovi nei confronti dell’infanzia. Un’ attenzione che coinvolge direttamente anche gli uomini. Tuttavia, si registra anche il tentativo di riportare la famiglia ed in particolare il rapporto padre-figli ad un livello di compostezza e severità vecchia maniera, da molti sentita necessaria dopo le stravaganze dell’Illuminismo e le follie rivoluzionarie della seconda metà del Settecento.
Molte fonti letterarie parlano di un padre severo e distante come ad esempio Hermann Hesse che definisce questo periodo “il regno del padre”. Infatti, fatta eccezione per alcune famiglie di particolare cultura e sensibilità, la maggior parte dei rapporti tra genitori e figli è basata quasi esclusivamente sull’ubbidienza. In Europa inoltre ci sono Paesi dove la paternità è vissuta in modo ancor più severo e distaccato. Ad esempio lo scrittore viennese Stefan Zweig sintetizzando il mondo che gli si presenta scrisse: << noi dovevamo essere educati anzitutto a rispettare come perfetto quello che sussisteva, a ritenere infallibile l’opinione del maestro, indiscutibile la parola del padre, a vedere l’organizzazione dello stato quale assoluta e valida in eterno >> (Zweig, 2005)” (Roticiani, 2018).
Questo periodo è caratterizzato, inoltre, da una profonda trasformazione sociale che cambierà in modo irreversibile il legame padre-figlio in Europa: l’industrializzazione. “Da questo momento in poi si potrà dire: “c’era una volta il padre”. Fino a questo punto infatti, egli era stato una figura dai contorni ben definiti, che fosse artigiano o contadino o commerciante, che la moglie l’aiutasse o meno nel lavoro, egli era detentore di un mestiere e di un’autorità. La sua professione era un patrimonio prezioso che veniva trasmesso ai figli maschi, non era solo un insegnamento di tecniche e strumenti, ma un passaggio di valori e regole. Ed era un elemento di coesione tra padri e figli, ricco di messaggi inespressi e ineguagliabile strumento di conoscenza reciproca. I figli, come in un rito di passaggio, ricevevano un testimone ideale dal padre e si facevano da ragazzi a uomini. In questo secolo invece, si sfalda la famiglia patriarcale e si attua la separazione del padre dal figlio e la svalutazione della figura paterna da parte di una visione femminile materna” (Bon Vecchio, Risè, 1998). Il padre abbandona infatti i campi o la bottega per l’opificio, esce dalla famiglia e lascia i figli alla madre. Per molto tempo, quindi, sarà solo lui la forza lavoro mentre la moglie prende il suo posto all’interno della famiglia e quindi nella cura dei figli.
Nel Novecento, la figura del padre resta, pressoché invariata: “figura autoritaria alla quale si deve obbedienza e rispetto prima ancora che amore” (Roticiani, 2018). La stessa Maria Montessori (1870-1952) rimarca continuamente la preminenza della figura materna nella cura dei figli anche se afferma che “istinto di maternità non è collegato solo con la madre, per quanto, procreatrice della specie, ella abbia la massima parte in questo compito protettivo; ma è nei due genitori” (Montessori, 1989).
“Ma la vera rivoluzione nella concezione della figura paterna avverrà proprio negli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento ad opera di Sigmund Freud. L’interesse di Freud per la relazione paterna è manifestato in numerose opere, ad esempio, nei più famosi casi clinici studiati da Freud hanno al centro di ogni situazione complessa la figura del padre: da Dora (1976), al piccolo Hans (1908), dall’uomo dei lupi (1918), all’uomo dei topi (1909), per non parlare dell’episodio del presidente Schreber (1974). Per Freud il padre è la più antica, la prima e, per il bambino, l’unica autorità, dalla cui onnipotenza hanno avuto origine nel corso della storia delle civiltà umane, le altre autorità sociali. È soprattutto dal padre, o meglio dall’identificazione con lui, che il bambino deriva il proprio “Super-io”, quell’istanza che si forma nell’Io che rappresenta un giudice, un censore che dovrà formare gli ideali e la coscienza morale. E fra le immagini che si sono formate nell’infanzia, nessuna è più importante, per il giovane o per l’uomo adulto, di quella del proprio padre” (Freud, 1982).
“Non saprei indicare un bisogno infantile di intensità pari al bisogno che i bambini hanno di essere protetti dal padre”(Freud, 1929). “Questa affermazione, fra le tante importanti di Freud, ci trasmette l’importanza da lui attribuita alla presenza del padre, a scapito della sola figura materna, vista come unica e fondamentale per la crescita del bambino. Per Freud l’importanza era dettata dalla “necessità” del figlio di confrontarsi con una figura sicura, detentrice di risorse cui attingere per acquisire stabilità, ma con cui anche scontrarsi.
Per Freud tale relazione è “fondamentale” perché fondata su una “ambivalenza” di sentimenti provati dal figlio verso il proprio genitore, importante e necessaria per garantire la sua crescita verso l’autonomia: per il figlio il padre rappresenta contemporaneamente un modello da imitare e (con lo sviluppo) un limite da superare, un rivale da sconfiggere e da cui staccarsi per affermare la propria indipendenza, le proprie risorse e il proprio ruolo sociale. L’emancipazione da questa figura genitoriale, insomma, secondo il fondatore della psicoanalisi, rappresenta un passaggio obbligato per qualsiasi figlio, per poter reclamare con soddisfazione una propria maturità (Redaelli, 2018).
Tuttavia, “il ruolo della figura paterna nella fase pre-edipica è stato però per anni trascurato e lo studio dello sviluppo infantile si è più che altro focalizzato sull’interazione diadica madre-bambino” (Baldoni, 2009). “Il padre assume in realtà un ruolo importante nei primi anni di vita del bambino, però non tanto nel rapporto diretto con esso quanto più all’interno della triade” (Baldoni, 2005).
“Infatti, nella prima infanzia, il padre è innanzitutto un oggetto della madre che lo incorpora e lo simbolizza come pene nel ventre materno e, in tale fase, il padre deve tutelare la relazione madre-bambino, svolgendo la funzione di supporto e contenimento emotivo per la madre durante la gravidanza e il post-partum, assumendo quindi una funzione antidepressiva” (Klein, 1932; Baldoni, 2005).
La madre reca in sé, la rappresentazione arcaica del proprio padre e del padre dei propri figli e quindi la funzione paterna è data dall’articolazione della mentalizzazione primaria della madre. È la ricerca del desiderio materno, dell’oggetto desiderato dalla madre che porta il bambino a ricercare il padre (Starace, 1999).
L’accesso al padre non è quindi diretto, anzi assume strade più tortuose e basate sulla percezione della “estraneità” e della “esternità”, a differenza invece della funzione materna che è riconoscibile e vivibile in modo immediato (Starace, 1999).
“Il padre si pone, nello sviluppo infantile, come un secondo oggetto, come un oggetto d’amore da acquisire. La madre e il suo seno vengono vissuti dal bambino come appartenenti al Sé, mentre il padre, il secondo oggetto, si presenta come estraneo ed esterno al Sé. Infatti, all’interno delle prime organizzazioni fantasmatiche infantili, il padre viene vissuto come una minaccia per i vissuti di fusionalità con la madre ma il ruolo paterno è indispensabile per condurre il bambino verso l’accettazione della realtà e dell’esperienza di separazione e individuazione” (Funari, 1999). “Il padre, oltre a porsi come limite all’unità duale onnipotente tra madre e bambino, permette anche di rinforzare il Sé del bambino, sottraendolo dall’angoscia di simbiosi, cioè dall’angoscia di essere riassorbito dalla madre che si oppone all’individuazione” (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).
“Il padre, inoltre, partecipa attivamente ad un’importante funzione, l’holding, in cui insieme alla madre permette al bambino di delimitare e nominare le varie parti e funzioni del corpo, in modo da creare una rappresentazione mentale di esso” (Di Benedetto, 1999).
“Il bambino, nella relazione con il padre, vive una forte idealizzazione che deriva dal bisogno narcisistico di sentirsi accolto e riconosciuto dal padre, dalla sua grandezza di adulto e proprio l’accettazione, da parte del padre, di tale funzione permette al figlio di sentirsi parte di tale ideale. Attraverso l’interiorizzazione e l’identificazione, il bambino può acquisire le strutture endopsichiche che gli consentono di svolgere autonomamente quelle funzioni. Quando però la relazione narcisistica è ostacolata da gravi problemi empatici, la funzione paterna si limita ad assumere il ruolo di un Super-Io normativo e castrante e la funzione materna invece diventa colpevolizzante e limitante. In questo modo i genitori non stimolano le capacità maturative del figlio e limitano il suo sviluppo. È giusto però sottolineare come la funzione idealizzante, tipicamente attribuita al padre, e la funzione speculare materna, siano in realtà funzioni interscambiabili e non rigidamente assegnate ad ognuno. Infatti, quando entrambi i genitori riescono a svolgere entrambe le funzioni in modo armonioso, rendono possibile uno sviluppo adeguato della relazione e quindi del figlio, come individuo a sé” (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).
“Il normale sviluppo del figlio è quindi garantito dall’affrontare, nella triangolazione, la nuova realtà che si viene a creare con l’individuazione del bambino e dall’accettazione, da parte della coppia genitoriale, della continua evoluzione del bambino, reinventando costantemente i ruoli e le reciproche relazioni del sistema triangolare” (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).
Da questa brevissima rassegna storica, mai esaustiva, emerge chiaramente come, la figura paterna si sia evoluta nel tempo, non solo in relazione ai diversi periodi storici ma anche rispetto ai grandi mutamenti sociali prendendo o perdendo, di volta in volta, varie sfumature, sino ad assumere ai nostri giorni una rilevanza diretta.
Risulta chiaro che, il padre assume un ruolo di fondamentale importanza nel “percorso di crescita e di sviluppo di ciascun individuo: rappresenta un apporto sostanziale che si snoda nella vita dei figli, sin dal concepimento, passando per l’età adolescenziale, fino all’ età adulta e viene inquadrato negli effetti che produce nei figli e nella famiglia. Tali effetti riguardano non solo l’ influenza diretta, come ad esempio i risvolti dello stile educativo sullo sviluppo emotivo o sociale del bambino, ma anche un’ influenza indiretta, attraverso la relazione coniugale, che può permettere un migliore sviluppo della relazione madre-bambino, come ad esempio il sostegno che il padre può dare alla compagna nel periodo perinatale.
Nella maggior parte delle ricerche psicologiche, così come nell’immaginario collettivo, la figura paterna è spesso relegata in secondo piano rispetto a quella materna. L’accoglimento del bambino nel grembo materno e l’allattamento collocano automaticamente il padre in un ruolo secondario e la letteratura è ricca di riferimenti, studi e approfondimenti teorici sulla diade madre-bambino, osservata da diversi punti di vista e da tutte le possibili angolazioni. E’, però, fuor di dubbio quanto l’origine del disagio psicologico, nell’infanzia come nell’età adulta, sia frequentemente riconducibile a squilibri e fragilità del rapporto con il padre.
Non è raro che le richieste di sostegno terapeutico che si ricevono nell’esercizio della professione, coinvolgano bambini e adulti nella cui storia familiare sia rintracciabile un’assenza paterna grave o incisiva: padri assenti non solo fisicamente ma anche simbolicamente, padri che non trovano sostegno nella compagna né per far valere questa paternità simbolica né per salvaguardare questo sacro spazio, padri fragili e trasparenti, autoritari o violenti, insicuri e iperprotettivi, spesso non riconosciuti e svalutati nel loro ruolo, incapaci di comunicare, posizionati vicino all’ uscita, pronti a scappare.
Negli ultimi anni è sembrata affacciarsi una nuova consapevolezza dei padri, che cercano di trovare una via tra il padre autoritario e quello maternalizzato. Un padre autorevole, capace di sedare i conflitti nella famiglia e nella società” (Attanasio, 2020).
“La parola d’ordine è diventata “co-genitorialità”, vale a dire una maggiore coinvolgimento del padre nella vita dei figli, nonché un’intercambiabilità delle funzioni, che vada al di là delle differenze di genere sancite dalla tradizione (Oliverio Ferraris, 2020).
“Negli ultimi decenni è stato sempre più frequente imbattersi in neo-papà disponibili a cambiare pannolini, alzarsi di notte e preparare il latte con il biberon al proprio bambino. Cose che, in un’ottica patriarcale tradizionale, sembravano impensabili e assurde.
Oggi i padri hanno una nuova attitudine verso i figli e sono presenti nella loro vita in una veste del tutto diversa da quella dei padri di un tempo, dominanti, punitivi, rigidi e scarsamente disponibili all’ascolto” (Attanasio, 2020).
E’ stato evidenziato come nella società contemporanea il coinvolgimento quotidiano nel lavoro di cura dei figli aumenti con il livello di istruzione del padre ed è favorito se la madre lavora e non genera conflitti di competenza, cioè non fa sentire il padre un genitore incapace e il figlio un oggetto di proprietà privata (ISTAT,1998).
“Gli studi sulla capacità dei genitori a rispondere in maniera adeguata ai segnali del bambino (responsività) hanno evidenziato come anche il maschio è responsivo nei confronti della prole. Ne è un esempio il fenomeno dell’ engrossment; in molti padri, alla nascita del bambino, è stato osservato una sorta di innamoramento immediato verso il figlio. Il padre distingue e riconosce il figlio rispetto agli altri, nota rassomiglianze fisiche o di carattere , insomma si costruisce un’ immagine interna del bambino che tende ad occupare sempre più spazio nella sua mente. Questo processo iniziale favorisce il nascere di un valido rapporto di attaccamento padre-bambino fin dal primo anno di vita” (Greenberg e Morris, 1974).
“Ma soprattutto è stata proposta una distinzione importante tra competenza ed esecuzione nel ruolo paterno. Anche se i padri esibiscono comportamenti di cura verso il piccolo in minore misura delle madri, quando essi si occupano del bambino lo fanno in modo altrettanto adeguato. I padri non sono sostanzialmente diversi dalle madri quanto alla capacità di mutualità, di alternanza dei turni nell’interazione faccia a faccia, quanto alla competenza nell’usare un linguaggio adattato all’età del bambino, nel riconoscere i suoi segnali, o nello svolgere le mansioni di cura. Essi hanno però uno stile diverso di interazione. I padri preferiscono interagire col figlio attraverso il gioco fisico, con contatti corporei molto stimolanti e ritmici. Sia che il padre giochi col figlio sia che lo accudisca, il suo atteggiamento in confronto a quello che ha la madre, è più prossimale, meno basato sulla comunicazione visiva e il linguaggio” (Genta, 1985).
Diverse ricerche degli ultimi vent’anni mostrano come lo sviluppo intellettivo del bambino sia collegato in maniera privilegiata alla relazione con il padre e come tale figura genitoriale sia più determinante di quanto si credeva in passato, all’interno delle dinamiche familiari e nella socializzazione dei bambini (Russell e Radojevic, 1992; Tiedje e Darling, 1996).
Determinate caratteristiche paterne improntate al calore e alla disponibilità, sono presenti sin dai primi anni di vita del bambino e hanno un ruolo determinante nello sviluppo dell’autostima e della competenza sociale e nell’accrescimento della motivazione alla realizzazione delle potenzialità intellettuali e della creatività.
“La continuità della funzione del padre appare cruciale, così come la sua presenza integra, fisica e mentale, sia sul piano della realtà oggettiva, sia su quello del vissuto interno relativo all’area del profondo” (Guerriera, 1989).
“L’interazione sociale dei padri con i figli è caratterizzata da un’intensa fisicità, volta a stimolare le competenze motorie e sociali del bambino che, a partire dal compimento del primo anno, acquista un ruolo attivo di “regolatore” della relazione. Favorendo l’esplorazione dell’ambiente esterno attraverso attività ludiche, arricchite da elementi di novità e di sorpresa, il padre si differenzia dalla madre, la quale utilizza maggiormente scambi verbali e modalità di interazione vis-a vis e più tranquille” (Lamb, 1987; Caneva e Venuti, 1998).
“Il gioco paterno aiuta il bambino ad apprendere la regolazione degli stati affettivi e rappresenta il ponte tra il sistema sociale familiare e quello dei pari. Le categorie della progettualità, della motivazione verso traguardi futuri e della decisionalità, un’adeguata autostima, una buona immagine corporea, forza morale e competenza sociale sono altre dimensioni della personalità specificamente collegabili alla funzione paterna. Comportamenti paterni quali raccontare storie ai figli, partecipare alla loro vita scolastica, accompagnarli alla visita di musei o luoghi storici, favorire attività extrascolastiche, sono alcuni dei fattori relazionali che appaiono significativamente correlati con indici di successo scolastico e di realizzazione personale sul lungo termine” (Forgione, 1997).
Numerose ricerche, infine, hanno evidenziato come contesti familiari in cui la figura del padre sia debole o assente, possano determinare importanti conseguenze sulle condotte e sulle dinamiche affettive e relazionali dei figli. Disfunzioni educative, povertà, condotte antisociali, psicopatia, abuso di sostanze e basso rendimento scolastico, sono fattori legati a stati di deprivazione paterna (Attanasio, 2020).
Per concludere, utilizzando le parole di Quilici (2017): “Su un fatto tutti sembrano essere d’accordo: nonostante la storia abbia conosciuto numerosi passaggi su se stessa, evoluzioni-involuzioni, slanci in avanti e arretramenti, i padri non torneranno indietro. L’era del pater familias dei nostri antenati romani, quella del padre-padrone immortalato da Gavino Ledda, è tramontata per sempre. I padri hanno scoperto l’enorme ricchezza di un rapporto prima inimmaginato, hanno liberato emozioni e sentimenti per secoli rimasti costretti in stereotipi frustranti, non è pensabile che accettino di tornare sui propri passi e perdere quanto hanno acquistato […]. Probabilmente ci sarà un riequilibrio, una sorta di “omeostasi sociale” che depurerà la paternità del domani dagli eccessi, talvolta dalle aberrazioni e patologie, che l’entusiasmo della grande novità ha suscitato. Possiamo anche presumere che i padri abbandoneranno il modello materno al quale si sono dovuti ispirare in mancanza di riferimenti storici – quello della propria madre o della propria compagnae troveranno una loro via. E che riusciranno a coniugare tenerezza e affettività con la necessaria autorevolezza che permetta loro di stabilire regole e confini. Perché questo accada dovrà, però, verificarsi una nutrita serie di requisiti: la fine di certi atteggiamenti contraddittori per i quali da un lato viene rilevata l’evanescenza della figura paterna rimpiangendone l’autorità di un tempo e dall’altro si tende a svilire, delegittimare, svuotare di significato il padre e i suoi connotati o relegarlo ai margini (si veda per esempio l’assoluta irrilevanza dell’opinione paterna in materia di aborto, la probabile fine del cognome patronimico, la accennata “maternizzazione” di molti settori nei quali la figura maschile svolgeva un profondo significato simbolico); un sensibile incremento dei permessi per i padri alla nascita, momento delicatissimo e importante per la triade appena costituita; una campagna tesa ad abbattere gli ostacoli – culturali prima ancora che economici – che rendono i congedi parentali per i padri poco utilizzati, e spesso non per colpa dei padri; l’insegnamento di una cultura del rispetto che abbia inizio sui banchi della scuola primaria (rispetto dell’altro tout court, in tutte le sue declinazioni: di genere, razza, ideologia, religione” (Quilici, 2017, pp. 10-11).
“La riflessione di Quilici, in prospettiva futura, sembra quanto mai opportuna, nel momento in cui invoca il superamento di squilibri e conflitti dannosi per chiunque, qualunque ruolo abbia e di qualunque genere sia, sottolineando che nulla di tutto ciò sarà possibile se fra padri e madri, uomini e donne, continueranno a esservi squilibri a danno degli uni e delle altre e quindi conflitto, competizione, incompatibilità e che forse il vero pre-requisito per una nuova, serena paternità è proprio questo: che uomini e donne, padri e madri, lavorino insieme per abbattere stereotipi, pregiudizi, ingiustizie, disparità che penalizzano entrambi”Crivellari, 2018).
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