A cura della Dott.ssa Vera Cantavenera, Psicologa Clinica, Coordinatrice PSP-Italia, Agrigento
“Lei nonostante la malattia non sembra triste. È serena e piena di pace, sicuramente questo è possibile grazie al vostro amore”
La comunicazione di una diagnosi infausta è sempre un’esperienza dolorosa, tanto più se riguarda un bambino. Di fatto, dover comunicare la brevità del futuro a dei bambini, pone sempre i familiari di fronte a una serie di emozioni di terrore, violente e impreviste; ansia e rabbia, diniego e sfiducia si riversano contro il mondo e verso sé stessi. È meno doloroso, per loro, pensare che i bambini non siano in grado di essere consapevoli della malattia, della morte e dei problemi che essa pone, piuttosto che dire la verità, col risultato di lasciarli spesso soli con le loro riflessioni e paure.
Così, nel rapporto con i bambini colpiti da diagnosi infauste, capita frequentemente che i genitori non dialoghino con i figli, e spesso la comunicazione è mascherata da risposte evasive e inappropriate o da vere e proprie bugie.
Comunicazioni imbarazzate e contraddittorie degli adulti creano ansie e angosce nel bambino, che li vede perdere di credibilità; inoltre, la menzogna non permette loro di dare continuità ai cambiamenti che gli si verificano attorno.
Ai bambini invece bisognerebbe parlare apertamente della loro morte, evitando l’impotenza e la frustrazione di messaggi incongruenti, donando loro le giuste attenzioni e l’affetto spontaneo che genera un sorriso. La morte “vera”, per un bambino sofferente, può essere rappresentata dall’”assenza”, cioè dall’esperienza di solitudine e di abbandono in cui viene lasciato da un adulto incapace di essere insieme a lui.
Ecco perché, se un tempo l’occultamento della diagnosi” per evitare “stress” al piccolo paziente era prassi regolare, negli ultimi anni il modo di parlare e comunicare ai bambini la malattia o la morte è cambiato. Si è passati ad una maggiore fiducia nelle abilità di comprensione di questi concetti da parte del bambino, e si è giunti alla conclusione che una comunicazione chiara e trasparente circa la prognosi della malattia è necessaria e abbisogna di particolari abilità e sensibilità.
Di fatto, il momento in cui si comunica la diagnosi sarà ricordato a lungo, dai bimbi come dai famigliari, e la presa di coscienza definirà la traiettoria delle scelte della famiglia per un tempo sconosciuto.
Grazie agli studi basati sui modelli integrati, condotti da J. Piaget, sappiamo che la comprensione della morte, nel bambino, si è evoluta nel corso degli anni:
è possibile asserire che i bambini con meno di 2 anni di età sono consapevoli della presenza di persone ed oggetti, e stanno elaborando immagini mentali dei genitori e di chi se ne prende cura, sperimentando distress quando questi si allontanano; non hanno il concetto di permanenza e di fronte a certe notizie sperimentano uno stato di confusione, e hanno bisogno di molta vicinanza fisica e di continue rassicurazioni;
invece, intorno ai 3-4 anni, il bambino è in grado di provare dolore per la mancanza, ma comprende la morte come una dipartita; è necessario di fatto, ribadire che la persona non può tornare e non tornerà;
è verso i 5-6 anni che il bambino comprende l’irreversibilità della morte e inizia a razionalizzare che essa è qualcosa di legato alla tristezza e alla separazione;
ma è a 9 anni che il concetto di “morte” può ritenersi formato. Tuttavia, mentre tra i 4 e 7 anni il concetto di morte in generale è ancora influenzato dal “magical thinking” (quel meccanismo di credenze per cui pensieri, eventi e desideri possono causare eventi esterni), e dunque il bambino coniugato allo sviluppo del senso di coscienza, può degenerare nel senso di colpa, dai 7 agli 11 anni il bambino/pre-adolescente affina la comprensione dei meccanismi basilari di funzionamento del corpo umano. È un’età, tuttavia, in cui il ragionamento si basa più su meccanismi concreti che su astrazioni e, ad esempio, nella malattia oncologica, si verifica quasi sempre che quando si tenta di comunicare al bambino la formazione del cancro o l’uso della chemioterapia, quest’ultimo non recepisce chiaramente questi concetti. Di contro, a seguito della chemioterapia, afferra prima ed è in grado di gestire, immagini concrete come: la perdita di peso e di capelli.
Nell’ambito del percorso evolutivo del bambino dunque, gli effetti di una diagnosi infausta minacciano inevitabilmente la sua crescita. Tra i fattori che mettono a rischio la normale crescita del bambino c’è il cambiamento del comportamento dei genitori, che a volte possono diventare iperprotettivi e/o eccessivamente permissivi, con il rischio di confonderli e disorientarli.
Di fatto, come precedentemente accennato, il bambino che viene a conoscenza che presto dovrà morire, sia attraverso un’informazione diretta oppure tramite un ragionamento autonomo circa il proprio stato di salute e le procedure sanitarie cui è sottoposto, ha bisogno di essere sostenuto nella paura e non può e non deve essere, lasciato solo. Le moine e un comportamento ingannevole possono provocare atteggiamenti di isolamento, chiusura e rischiano di aggravarne le condizioni cliniche.
Piuttosto è bene che i genitori si facciano forza e parlino apertamente al loro figlio. E quando non riescono a parole, possono veicolare il messaggio attraverso altri canali di espressione indiretta già utilizzati e conosciuti dallo stesso, come ad esempio: il disegno, la scrittura, l’utilizzo di storie, fiabe o contenuti video, come i cartoni o i film, che possono essere strumenti veicolanti e di supporto alla comunicazione.
A proposito di comunicazione cito le parole di Antoine de Saint-Exupéry ne “Il piccolo principe”: «È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante». Aggiungo che non vi è tempo perso nella cura della comunicazione, essa stessa diviene “tempo di cura” e potenziale che può trasformare e migliorare ogni genere di relazione e scambio.
Il lavoro dei professionisti del PSP-Italia in questi specifici casi, è proprio quello di accompagnare il bambino e la sua famiglia nella graduale e non semplice presa di coscienza della diagnosi, che spesso porta i genitori a sperimentare livelli altissimi di sofferenza e a chiudersi nel proprio mondo, abbandonando paradossalmente ai suoi pensieri e alle sue paure il bambino, che di contro è colui il quale invece avrebbe bisogno d’esser sostenuto, compreso, semplicemente abbracciato.
A tal riguardo, l’equipe del PSP-Italia, interviene a supporto e sostegno dei familiari per facilitare sia la gestione dell’emotività e sopratutto la comunicazione della malattia al bambino, e veicolare l’infausta diagnosi attraverso percorsi psicoeducativi costruiti ad hoc, al fine di prevenire, anche a distanza di tempo, lo svilupparsi di alti livelli di ansia, forse perché si ritiene di aver lasciato il proprio bambino con i suoi pensieri, da solo e senza conforto.
Intervenendo a garanzia del benessere psicologico del bambino, lo accompagnano nel processo naturale di crescita, in presenza della malattia, sostenendolo e aiutandolo a gestire le proprie emozioni, durante il percorso di cura, con particolare attenzione a momenti delicati come eventuali interventi, trapianti, recidive, complicanze e fasi terminali.
“Forse non tutti sperano di morire, di dimenticarsi e di essere dimenticati quanto lo voleva Jorge Luis Borges”: un pensiero da romanzo, una frase da Nobel mancato. Ma la morte non è appannaggio solo dei titani della letteratura. La comunicazione di una diagnosi infausta è un’evenienza comune, e più comune di quanto si pensi è doverla comunicare a dei bambini.
Ecco perché, accompagnare e preparare il bambino e i suoi familiari in percorsi difficili, che non prevedono una via d’uscita, è una sfida umana, e deve essere compito dei professionisti del settore. Di fatto, nulla pare affievolire l’angoscia di quei genitori che si ripetono “Dobbiamo dire al nostro bambino che dovrà morire?”. È solo il potere della parola e dell’amore accompagnato spesso, alla voce del silenzio, che può via via accogliere e contenere il dolore.
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