Diagnosi infausta e Terza Età

A cura della Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica, Responsabile Settore Comunicazione Pronto Soccorso Psicologico-Italia.

Diagnosi infausta e Terza Età

“La speranza è la morfina della vita” (Louis Dumur)

Le parole “malattia inguaribile” sono due termini che suonano come una condanna senza possibilità di appello, sempre, per qualsiasi soggetto, a qualsiasi età.

Secondo Buckman rientrano tra quelle “cattive notizie” che nessuno vorrebbe mai sentirsi dire, e che alterano drasticamente la prospettiva di vita: ci si ritrova da un giorno all’altro a dover fare i conti con progetti spezzati, con un futuro a lungo termine che non ci sarà, con sogni (grandi o piccoli) che non prenderanno forma. Da una parte vi è un corpo traditore che diventa improvvisamente il proprio peggior nemico e che toglie autonomia, abilità, e spesso dignità; e poi ci sono gli altri che sono talmente spaventati dalla malattia da non riuscire a vedere nient’altro, condannando anzitempo il proprio caro ad un vissuto di solitudine ed impotenza.

Ippocrate raccomandava di non comunicare alcuna informazione che potesse causare disperazione e peggiorare la situazione di un soggetto malato per cui, nei secoli, il medico ha avuto un atteggiamento tendenzialmente “paternalistico” nei confronti dei pazienti con prognosi infausta, omettendo quasi sempre la verità.

Su questa scia, il primo codice etico in Medicina (1947), permetteva ai medici di evitare di dire “cattive notizie” ai pazienti, per paura di accorciare loro la vita; tale condotta è continuata anche nei decenni successivi.

Negli anni ’90 in Italia, sono però entrati in vigore i principi del “consenso informato” e dell'”autonomia del paziente”, che hanno creato chiari obblighi legali di dare ad esso tutte le informazioni riguardo alla sua malattia, prognosi e terapia.

Al di lá dell’aspetto legale, non fornire indicazioni sulla prognosi infausta a persone con malattia terminale, anche anziane, è inaccettabile innanzitutto da un punto di vista etico: una corretta informazione è prima di tutto un “atto di rispetto” verso la persona, che gli restituisce la libertà sottrattagli dalla malattia e gli permette di prepararsi alla morte, di affrontare situazioni considerate “in sospeso”, di dire addio ai propri cari.

Un malato inguaribile è innanzitutto una “persona viva”, che va aiutata a scoprire il valore del tempo che gli resta, che ha bisogno di essere nutrita non di illusioni ma di “speranza”, che desidera sentirsi dire la verità, seppur in maniera garbata, senza rimanere imprigionata in una congiura del silenzio.

La prognosi “temporale”, ossia la previsione di come la malattia si evolverà e quindi di “quanto” la persona vivrà, è comunque quasi sempre una “predizione probabile”, e come tale va comunicata: “Poiché la medicina non è una scienza esatta, e sono troppe le variabili che influenzano il tempo in cui un soggetto riesce a convivere con la malattia (talvolta alcuni soggetti gravemente malati vivono mesi o anni più del previsto, molto oltre i tempi ritenuti possibili; in altri casi avviene invece l’esatto contrario), c’è sempre un margine di incertezza nello sviluppo dei quadri patologici; ed è proprio in quel margine si colloca la speranza” (U. Veronesi).

Tutti i medici devono essere onesti, ma nessun medico ha il diritto di togliere a un malato questo sentimento che è tra i piú importanti affinchè poter affrontare in maniera dignitosa il percorso di consapevolezza ed accettazione della propria condizione, senza rimanere totalmente preda della disperazione assoluta.

Nei casi di malattie con esiti infausti, al di lá dell’incerta temporalità, ciò che purtroppo non viene messa in dubbio è l'”inguaribilitá” del soggetto, in quanto il processo patologico è “irreversibile ed irrecuperabile”, anche se di durata soggettivamente variabile a seconda delle situazioni.

Nel momento in cui dunque la guarigione non è possibile, si è di fronte alla gestione del cosiddetto “fine vita”, che richiama inevitabilmente un altro concetto multi-dimensionale ad esso inscindibilmente collegato: la “qualità di vita” di un paziente con prognosi infausta.

Il soggetto inguaribile è una persona che va “ben oltre” il proprio organo malato e il proprio stato patologico corporeo, e che sente la necessità di essere riconosciuto in un'”identità complessa e sfaccettata” che gli è appartenuta per una vita intera, ma che adesso viene messa in secondo piano, poiché cancellata dalla propria condizione di malattia.

Ecco perché “la cura del corpo non può prescindere dalla cura globale del paziente”, ed una terapia che trascura la parte emotiva e psicologica può non solo ostacolare l’esito delle cure, ma addirittura peggiorarle in quanto si mostra incapace di saper mettere al centro il paziente, inteso innanzitutto come “persona umana”.

Il concetto di salute è ormai risaputo che include non solo le arie dello stato funzionale di un soggetto, ma anche quelle del suo benessere psico-sociale: consiste nella percezione globale della persona rispetto alla propria vita in senso fisico, psichico, relazionale, sociale e spirituale, ed in base a questo assunto appare fondamentale la necessità del “prendersi cura” a 360 gradi di tutte le sue dimensioni.

I pazienti anziani a cui viene diagnosticata una malattia grave inguaribile non sempre ricevono la stessa informazione dei pazienti adulti più giovani. In questi casi prevale quell'”atteggiamento paternalistico” di cui sopra, che porta a comunicare la reale situazione maggiormente (ed in alcuni casi, esclusivamente) ai familiari, che non al soggetto interessato in prima persona dalla malattia.

Questo poichè la Terza Età è considerata già in sè una “fase delicata” del ciclo di vita di un soggetto, in quanto in essa si riscontrano diverse “crisi” dovute a tutta una serie di avvenimenti, molti dei quali inevitabili, come la perdita di vigore e forza fisica, il deterioramento a livello cognitivo, il ritiro dall’attività lavorativa e il pensionamento, la vedovanza, l’allontanamento dei figli, la perdita di autosufficienza…

La vecchiaia può dunque essere considerata una “dura prova” a tutti gli effetti, ancora di piú quando si devono fare i conti con la precarietà della salute. La frequente presenza di “comorbidità” complica ulteriormente un quadro clinico infausto:

  • ad esempio l’esistenza di “depressione senile”, stato tipico dell’anziano -sebbene spesso mascherato o non riconosciuto-, da intendersi piú come condizione reattiva a tutte le “crisi” prima esposte, potrebbe portare il paziente ad idee suicidarie;
  • altre condizioni legate all’età quali deficit funzionali riguardanti l’udito, eventuale deterioramento cognitivo, con correlata perdita delle capacitá attentive, non consentono invece “a monte” una corretta comprensione della comunicazione di malattia, portando l’anziano a cercare successive conferme nei propri familiari, attribuendo indirettamente ad essi un ruolo di responsabilità in quanto si ritrovano a dover riferire le informazioni corrette e a doverlo fare nel modo piú opportuno. Questo fa sorgere la necessità dei caregivers di dover poter disporre di vere e proprie linee guida adeguate al caso, oltre ad alimentare il “ruolo passivo” della persona anziana.

In realtà, dove è possibile, si dovrebbe mirare sempre a potenziare l’autonomia decisionale dell’anziano mentalmente competente, attraverso una “compartecipazione autentica ed empatica” che possa piuttosto indurlo ad esprimere le proprie esigenze ed aspettative, in modo da poterlo aiutare ad ottenere il massimo del coraggio per affrontare la malattia.

Considerato anche maggiormente suggestionabile da alcuni termini, vulnerabile ad un carico di notizie e ad un linguaggio sofisticato, si preferisce ancora oggi nella pratica clinica quotidiana non comunicare con l’anziano in modo totalmente veritiero, fornendo informazioni parziali, omettendo gli aspetti piú crudi, prediligendo una comunicazione rarefatta, ambigua, evasiva… nonostante gli obblighi deontologici e la dichiarata centralità e autodeterminazione della persona nel percorso di cura e nella scelta delle cure stesse.

Invece, anche per il paziente anziano, il lungo e complesso percorso di comprensione ed accettazione della propria malattia, dipende innanzitutto dalla “qualità” delle informazioni che riceve e dalle modalità attraverso le quali gli vengono fornite (oltre che dalle piú generali interazioni con medici, operatori sanitari e caregivers, e delle sue caratteristiche individuali).

“La consapevolezza è un processo dinamico che si modifica nel corso della malattia ed è influenzato sia dalla quantità e dalla qualità dell’informazione, sia dal significato che il paziente attribuisce a questa informazione. In questo processo il paziente integra aspetti cognitivi ed emotivi” (Morasso, Alberisio e Viterbori).

La comunicazione delle informazioni relative alla malattia e al trattamento permette alla persona di “mantenere un senso di controllo, far fronte alla situazione di incertezza determinata dalla condizione di malattia, di chiarire dubbi e paure, di identificare anche in termini esistenziali il significato della propria esperienza di malattia, e di mettere in atto adattamenti pratici ed emotivi ad essa” (Caruso).

In una revisione di Innes e Payne tutti gli studi concordano che i pazienti con malattia avanzata inguaribile -anche anziani- “desiderano un certo livello di indicazioni prognostiche” (anche se molti pazienti non riescono poi a raggiungere una realistica comprensione della loro prognosi). “La consapevolezza della prognosi permette un maggiore controllo, aiuta pazienti e medici e gestire meglio il processo del morire, facilita la pianificazione del futuro, riduce l’ansia, sviluppa una maggiore fiducia, migliora le strategie di coping, aumenta la soddisfazione per le cure; la conoscenza della prognosi è altresí significativamente associata con la scelta di cure appropriate e minor di stress emotivo”.

L’assenza di informazioni o una comunicazione non totalmente veritiera possono avere invece conseguenze negative sulla persona anche anziana, quali “insoddisfacente gestione della fase avanzata di malattia, ricoveri non necessari, maggiore mortalità ospedaliera, mancato o ritardato avvio delle cure palliative, cattivo controllo dei sintomi, minore pianificazione delle cure di fine vita e conseguente riduzione delle scelte del paziente, maggiore stress, frustrazione ed incertezza e senso di abbandono” (Innes e Payne).

“La comunicazione di una diagnosi soprattutto dagli esiti infausti, è qualcosa di più di una semplice trasmissione di informazioni: implica lo sforzo di coniugare informazione e verità, richiede fiducia reciproca, cure, interesse, conoscenza del paziente” (Annunziata).

La corretta informazione deve essere resa sempre, “a prescindere dall’età del paziente”, e rappresenta la base per poter poter intraprendere nel migliore dei modi il complesso percorso di gestione di una malattia a prognosi infausta.

L’equipe del Pronto Soccorso Psicologico-Italia è a sostegno di quella multi-disciplinaritá che serve in questi casi affinchè il processo di elaborazione cognitiva ed affettiva che i pazienti in oggetto devono intraprendere possa avere dei buoni esiti, affiancando alle terapie farmacologiche (o alle cure palliative), degli interventi di “supporto psicologico” rivolti direttamente ai soggetti ammalati ed anche ai propri cari, ugualmente necessari per poter mantenere una qualità di vita discreta ed accettabile

…nell’osservanza di quel “delicato equilibrio tra verità e speranza” che è molto difficile da raggiungere e mantenere, ma che è capace di donare rispetto e dignità anche nei casi piú gravi, quando si pensa erroneamente che un malato terminale non desideri parlare della propria condizione o che possa esserne turbato.

Invece, i soggetti che convivono con condizioni con esito fatale preferiscono essere aggiornati di continuo sul proprio stato e coinvolti nel processo decisionale: “avere informazioni chiare e complete è uno dei bisogni piú importanti del paziente terminale, e la consapevolezza che da ciò deriva sembra correlata a un miglior controllo dei sintomi e alla soddisfazione per gli eventuali percorsi di cura” (Bozcuc e al.).

Tutto ciò affinché poter recuperare un linguaggio, uno spazio culturale, una dimensione psichica e rituale in cui poter inscrivere la morte ed il morire, eventi naturali che in questa nostra societá moderna vengono piuttosto negati e rimossi, rappresentando un vero e proprio tabù;

oltre a donare un senso di speranza che, anche se non legata alla guarigione e alla sopravvivenza, si estrinseca nel diritto di poter vivere al meglio gli ultimi giorni di vita.

Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica, Responsabile Settore Comunicazione Pronto Soccorso Psicologico-Italia