A cura del Prof. Mariano Indelicato, Presidente Pronto Soccorso Psicologico
“diventare madre è il risultato del lavoro che ogni donna compie sulla propria mente, e il frutto di tale lavoro è l’assetto materno, un campo dell’esperienza intimo e profondo”
La celebrazione della festa della mamma costituisce l’occasione per una riflessione psicologica sul ruolo che le teorie psicologiche hanno dato alla donna come genitrice ovvero a colei che nel momento in cui dà la vita si assume il compito di curarla e difenderla. Durante la fase della nascita, infatti, vengono alla luce due nuove figure quella del figlio e quello della madre la quale, da un lato, diventa il caregiver primario ovvero la fonte affettiva in cui il nascituro potrà saziare le sue richieste di aiuto e di cura e, dall’altro, perde le sue caratteristiche di figlia. E’ dall’elaborazione dei rispettivi traumi della nascita che inizia la meravigliosa avventura dello sviluppo e della definizione dell’identità di madre e figlio che diventano il riflesso specchiante l’uno dell’altro.
E’ nello scambio di sguardi, nella luce emanata dai rispettivi occhi, nella richiesta di accudimento e autonomia, nella conflittualità dei permessi e dei divieti, l’inizio di un legame che si proietterà in un tempo senza tempo che neanche la vita, intesa come inizio e fine, potrà mai interrompere sia nello sviluppo “normale” sia in quello patologico. E’ all’interno delle impercettibili traiettorie tracciate dal legame che scoprono i significati più profondi del loro stesso essere.
La psicologia si è spesso soffermata sugli influssi della madre sul figlio descrivendo la prima come quella buona, che cura e contiene, e quella cattiva che imprigiona e avvelena, non tenendo conto dell’influenza reciproca, della diade madre figlio. Nel superamento delle rispettive frustrazioni basate sull’essere uno parte dell’altro e contemporaneamente diversi e separati trova la sua massima espressione l’esperienza della maternità. E’ attraverso l’esperienza del perdere e del saper perdere che il legame si rinvigorisce continuamente.
La donna in gravidanza accudisce il feto sapendo che all’atto della nascita lo dovrà dare non solo alla luce ma al mondo: sa che con il parto dovrà vivere l’’esperienza dello svuotamento, del vuoto che tante altre volte, per il bene del figlio, sarà costretta a sperimentare. Deve perdere una parte di sé in favore dell’autonomia dell’altro. Nello stesso tempo il figlio, alla conquista della necessaria autonomia, dovrà affrontare un ambiente totalmente ostile a cui dovrà adattarsi cercando cura e conforto nella presenza della madre la quale sarà costretta a mettere a dura prova la voglia di protezione con la necessità di crescita del figlio: si troverà a misurarsi con l’esserci e il non esserci.
La nascita è il primo dei momenti in cui sperimenteranno l’angoscia della separazione e si troveranno nella condizione di essere figlio e madre. A tal fine il figlio, per il suo sano sviluppo, dovrà prendere coscienza che la presenza della madre va al di là della presenza fisica e la madre dovrà abbondare il suo ruolo di figlia.
E’ attraverso questo assunto che possiamo leggere e interpretare la good enough mother di Winnicott: la madre sufficientemente buona è colei che accetterà che il figlio è un soggetto diverso da sé e non è una parte integrante di se stessa; è la madre che sa regredire, diventare piccola come il suo bambino, per sintonizzarsi meglio su di lui, sul suo mondo interno e sui suoi bisogni e, nel contempo, riesce a dargli il giusto grado di autonomia. Winnicott afferma che, all’inizio della vita, ognuno esiste solo in quanto parte di una relazione e, le sue possibilità di vivere e svilupparsi, dipendono totalmente dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento e appartenenza ad un Altro (madre/caregiver) che si prenda cura di lui e gli dia qual senso di sicurezza e intimità che sono basilari per la crescita. Sarà proprio in rapporto alla qualità affettiva di tale relazione primaria, da quanto la figura di attaccamento sarà disponibile, protettiva, affidabile, costante e capace di un contatto caldo e rassicurante, che dipenderà lo sviluppo sano del suo vero Sé.
Al contrario, vi sono le madri castranti, divoranti, simbiotiche le quali sono iperprotettive, inibenti, ansiogene, preoccupate, simbiotiche. Esse vedono il figlio come un eterno bambino anche se è già adulto, spesso si riferiscono a lui con vezzeggiativi tipici di una relazione infantile. Sono in genere madri che hanno bisogno che il figlio segua la loro visione del mondo e delle cose: hanno già in mente tutto il loro futuro dispiegato in un attimo, sono costantemente in ansia anche se il figlio sta semplicemente facendo il suo mestiere di figlio, ovvero esprimere la sua turbolenza infantile, fare dispetti, disubbidire. Le sfumature possono andare dalla freddezza della madre-soldato, alla fusionalità della madre simbiotica, ma in ogni caso abbiamo a che fare con relazioni malate e castranti. La madre simbiotica, in particolare, ha bisogno del contatto fisico con il figlio, le piace stropicciarlo, baciarlo, averlo per sé: ma un contatto così esasperato non è mai un reale istinto di donazione, è un modo per fagocitare, prendere, succhiare l’anima del figlio per farla tutta sua. Sono le donne che non riescono, a seguito di loro traumi, infantili non riescono a trasformarsi in madri restando eternamente figlie.
Stern sostiene che prima, durante e dopo la gravidanza si forma una nuova identità, un nuovo stato mentale e cognitivo: “diventare madre è il risultato del lavoro che ogni donna compie sulla propria mente, e il frutto di tale lavoro è l’assetto materno, un campo dell’esperienza intimo e profondo”. Secondo questo autore diventare madri significa strutturare un campo esperienziale e uno stato mentale totalmente nuovo, sconosciuto alle non madri, in cui sarà sospinta ai margini la vita mentale precedente per dare spazio all’assetto materno che andrà ad occupare l’asse centrale della vita interiore e le imprimerà un carattere del tutto diverso.
Diventare mamma, infatti, significa affrontare un’esperienza che non ha eguali nella vita e per un certo periodo di tempo il fatto di avere un bambino influenzerà i pensieri, le paure, le fantasie, le emozioni, le azioni delle donne arrivando, addirittura, ad affinare il sistema sensoriale e l’elaborazione delle informazioni.
Uno dei compiti principali delle neomamme è assicurare la sopravvivenza del figlio già dal momento del concepimento. La responsabilità di un altro essere umano è nelle mani delle mamme e questo determinerà inevitabilmente le loro scelte che non terranno conto solo ed esclusivamente delle esigenze individuali ma anche di quelle del figlio. Oltre della sopravvivenza dovranno occuparsi anche di farlo crescere sano fisicamente e mentalmente ben sapendo che dalle modalità con cui loro ameranno il loro figlio dipenderanno le modalità con cui quest’ultimo sarà capace di affidarsi all’Altro o meno.
L’incapacità di amare, infatti, porta i figli ad instaurare relazioni non incentrate sull’amore ma solo sul soddisfacimento delle proprie esigenze narcisistiche. G. Cortesi sostiene che: “se alle spalle – magari non ricordato, magari rimosso o negato, magari coperto dal mito di una madre idealizzata – c’è un accudimento materno o troppo divorante o troppo rifiutante e castrante (la carenza materna è sempre comunque espressione di una coppia genitoriale carente), quel maschio non riuscirà da adulto ad affidarsi al femminile, non saprà e – soprattutto – non potrà vivere la dolcissima avventura di tuffarsi nel magico e trasformante potere della femmina, affidandosi al suo abbraccio e penetrandone il mistero”.
Le conseguenti esigenze narcisistiche tendono al possesso dell’altro in contrapposizione al mancato possesso dell’amore materno e in quanto tali a relazioni patologiche. Anche le esperienze di abbandono infantile comportano lo sviluppo di esigenze narcisistiche che, a loro volta, determinano relazioni tese al non riconoscimento delle esigenze dell’altro. Il bambino piccolo piange e si dispera non appena la madre si allontana sperimentando l’angoscia da separazione. La perdita della persona che ci accudisce rappresenta un lutto e viene vissuta come una grave minaccia alla propria esistenza, un’amputazione di una parte di sé. Spesso si accompagna alla percezione di non poter sopravvivere senza l’altro, e ad una visione catastrofica della vita e del mondo. Le esperienze di perdita e di abbandono nell’adulto possono rievocare antiche ferite, facendo riaffiorare costellazioni di angosce primitive, mai metabolizzate, confermando le aspettative di tradimento, inaffidabilità da parte dell’altro e un’immagine di sé come vulnerabile, destinato ad essere ferito, rifiutato nei rapporti. La separazione diventa non solo perdita dell’altro ma anche perdita di sé, come persona degna di amore. Il mondo diventa improvvisamente un deserto privo di senso, dove niente è stabile e ogni rapporto intimo porta con sé il fantasma dell’abbandono e del conseguente insostenibile dolore.
Kohut, a tal proposito, sostiene che: nel momento in cui la madre vede il bambino per la prima volta ed entra in contatto con lui, ha inizio la potenzialità di un processo attraverso il quale si stabilisce il Sé di una persona (H. Kohut, 1978). Di fronte a queste enormi responsabilità la grande paura è quella di poter commettere errori . Bettelheim rieleva che l’importante non è non commettere errori, ma riuscire a imparare dai propri sbagli, riflettere e riparare ben sapendo che il lavoro genitoriale è soggetto a molteplici frustrazioni. Per Winnicott l’errore è un elemento importante della genitorialità poiché è proprio dall’errore che bisogna ripartire quando si incontrano ostacoli e, per questo, diviene risorsa e forma di apprendimento che serve per ri-programmare altre scelte.
Alle donne in quanto tali, inoltre, viene affidato , dal punto di vista antropologico ed escatologico, un altro grande compito che è quello della continuazione della specie ovvero di donare la vita. Recalcati, nel libro “Le Mani della Madre”, scrive che che “Madre è il nome dell’altro che tende le sue nude mani alla vita che viene al mondo, alla vita che, venendo al mondo, invoca il senso” mettendo in risalto che le donne assumono, dal punto di vista simbolico, un’immagine quasi divina che da senso all’esperienza del figlio. D’altronde il corpo femminile dal punto di archetipo è da sempre stato considerato ed immaginato come il grande vaso generatore della vita. E’ attraverso l’orifizio genitale che passa il prima e il dopo della vita e rende sacro il corpo delle donne. Neumann introduce, a tal proposito, lo schema “vaso-corpo”, in quanto tutte le funzioni vitali si svolgono entro questo binomio simbolico: “Tutte le aperture del corpo, occhi, orecchie, naso, bocca, ombelico, ano, zona genitale, così come l’epidermide, sono luoghi di scambio tra l’interno e l’esterno che per l’uomo primitivo posseggono una tonalità numinosa”. ”. La corporeità come vaso è la realtà dell’individuo. Proprio il femminile, la donna, è il vaso per eccellenza: contenitore della vita stessa e ciò da senso al desiderio di maternità ma, contemporaneamente, la madre, con il suo desiderio di essere contemporaneamente donna, volge il suo sguardo altrove permettendo al figlio di sperimentare il desiderio di percorrere le vie del mondo ovvero di separarsi dalla madre.
E’ la rottura di questa fusionalità che permette la generatività poiché si tratta di sperimentare la propria autonomia senza necessariamente tagliare i legami con l’altro. E’ attraverso il perpetuarsi di questo processo che la maternità continua ad esplicare la sua funzione dando senso alla festività della mamma.
E’ in questa sintesi che si esprime la generatività e che da corso alla millenaria esperienza dell’uomo. E’ attraverso questi meccanismi che si delinea l’identità della madre portatrice di ciò che viene dal passato ma conduttrice di nuovi processi generativi frutto dell’espressioni di nuovi desideri che debbono per forza di cose essere contestualizzati. Scrive a tal proposito N. Terminio “Se c’è desiderio allora c’è processo di separazione del progetto dell’Altro ed è proprio questo distacco che rende possibile la generatività: solo se si è in una posizione soggettiva sganciata dalle attese dell’Altro si può generare in prima persona, assumendo su di sè il rischio e la soddisfazione del proprio atto creativo”.
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