Il rapporto con il corpo nella società dell’Immagine: immagine corporea e body shaming

A cura della Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica, in formazione presso Scuola di Psicoterapia ad orientamento Sistemico-Relazionale, Responsabile Settore Comunicazione Pronto Soccorso Psicologico-Italia.

Abstract

La “centralità del corpo” nell’attuale disagio della civiltà si correla al “consumismo dell’immagine”, che è uno dei fulcri di questa nostra società.

Un’immagine “perfetta”, frutto di canoni estetici e modelli di bellezza difficilmente raggiungibili, se non addirittura impossibili;
motivo per cui l’”insoddisfazione per il proprio aspetto fisico” può ormai essere considerata un “aspetto normativo” dell’attuale contesto socio-culturale (J. Rodin et all., 1984).

Alla frustrazione ed al disagio derivanti da un confronto inevitabilmente fallimentare tra il proprio Sé corporeo “Reale” ed il Sé corporeo “Ideale” proposto dagli attuali canoni di bellezza, può purtroppo aggiungersi la sofferenza proveniente da critiche e giudizi negativi, da insulti ricevuti da parte di altri soggetti che li proferiscono proprio “con l’intento di far provare vergogna a qualcuno per l’aspetto del proprio corpo”;

è questo il fenomeno del body shaming, risultante di un insieme di aggressioni verbali gratuite e crudeli derisioni per il proprio aspetto che, a causa dei social media -fungenti da “cassa di risonanza”-, raggiunge oggi proporzioni molto vaste e preoccupanti.

Solo un’operazione culturale da intraprendere “a monte”, per un passaggio dall’Estetica (di un corpo preteso e reso “perfetto”, grazie anche agli artifici della scienza) all’Etica (che riqualifichi il corpo come “umano” ed “imperfetto”) potrebbe dare un contributo costruttivo a proposito del modo di considerare il proprio corpo e quello altrui, introducendo un “senso” che parta dall’accettazione di sé stessi e delle proprie imperfezioni, dalla valorizzazione della “particolaritá” delle caratteristiche di ogni soggetto, e dal recupero di un legittimo e sano predomio dell’Essere sull’Apparire.

body shaming

“L’immagine corporea è l’insieme di percezioni, pensieri e sentimenti sul proprio corpo: averne un’idea realistica e positiva rassicura e dá gioia; invece un giudizio negativo è causa di ansia, tristezza e frustrazione”, (P. Schilder).

 

Introduzione:

Qualsiasi cosa l’essere umano faccia nella sua vita, dal momento della nascita fino alla morte, è sempre accompagnato dal suo CORPO.

Il corpo è la prima cosa di sé stessi che si mostra all’esterno, la prima cosa su cui l’altro poggia il suo sguardo;
è la carta di identità di ogni soggetto che viene alla ribalta, che egli ha imparato a “riconoscere” da una precisa fase di sviluppo in poi (stadio dello specchio) e del quale, durante tutta la propria esistenza, continuerá a vedere l’aspetto su qualsiasi superficie che ne “rifletta” le sembianze.

È proprio lo “stadio dello specchio” a fornire infatti per la prima volta al soggetto -tra i 6 e i 18 mesi-, l’immagine del proprio corpo, consentendo di “riunificare, attraverso il giubilo del bambino di fronte al riflesso della sua immagine speculare, un corpo che emerge originariamente come corpo in frammenti” (M. H. Brousse, 2000).

In questa fase avviene la prima identificazione tra il bambino (percepitosi sino ad allora “parziale” ed un “prolungamento” della propria madre) e la sua immagine, differente da quella dell’adulto che lo ha accompagnato davanti allo specchio.

Il bambino, confrontarsi con ciò che lo specchio gli riflette, arriverà ad acquisire un’”immagine di sé unitaria e definita”; inoltre, vedendosi vicino ad un altro, si riconoscerà come “separato da esso” e, di conseguenza, prenderá coscienza di sé.

“Riconoscersi “intero” allo specchio comporta una definizione dei propri confini fisici, e impone la definizione dei confini che lo separano dalla madre
[…]Spinto fuori dal primo contenitore il bambino cercherà ospitalità nell’immagine speculare che lo “emancipa” dalla madre” (M. Agostini, 2017).

Tutto ciò introduce anche la cosidetta “questione dello sguardo” (M. Barbuto, 2002): l’individuo diventa un corpo che “viene visto”, non piú solo dagli altri, ma anche da sé stesso; e proprio il suo sguardo, in alcuni momenti piú di altri, sará costantemente diretto a “valutarne aspetto, forma e volume”.

È quanto accade soprattutto durante la fase della pubertà, quando il corpo va inevitabilmente incontro a tutta una serie di cambiamenti (comparire delle forme, aumento di peso, acne…) che mettono in crisi la “capacità di riconoscersi ed accettarsi”, e fanno sentire il soggetto “maggiormente vulnerabile” da un punto di vista psicologico.

Anche in età adulta non mancheranno i momenti di “crisi” piú o meno intensi, e piú o meno duraturi, anche e soprattutto a causa dell’importanza che riveste l’aspetto fisico in questa nostra società definibile “dell’Immagine”:

Oggi l’esistenza, l’essere al mondo vengono giustificati dall’”avere un corpo”: ne deriva la priorità della forma sulla sostanza, dell’apparire sull’essere, del visibile sul non visibile.
Ciò fa si che il ruolo dell’immagine venga amplificato, sino alle sue piú estreme conseguenze” (C. Menghi, 2002).

Sempre piú spesso dunque, oggi, l’essere trae dal corpo la sua definizione: “Ho un corpo conforme ai dettami dei canoni estetici, dunque sono”. Non è piú il “pensiero” che certifica l’esistere (“cogito ergo sum”), ma il corpo nella sua dimensione estetica (ibidem).

Si giustificano cosí certi “trattamenti” a cui viene sottoposto: diete forzate ed estreme, digiuni stremanti e dannosi per l’organismo, pratica di body building, interventi di chirurgia estetica, modellamenti ottenuti con il ricorso a sostanze chimiche…

..interventi che, in quanto a modalità ed oggetto, appaiono in parte sovrapponibili a quelli di eroi e santi; tranne che per il loro essere privi di quel qualcosa, detto “finalità etica”, che in altri momenti storici li sosteneva e giustificava.

Il corpo perde cosí la sua “dimensione sacrale” e, per certi versi, viene trattato alla pari dei tanti “oggetti” dei quali si circonda l’uomo occidentale:
l’epoca della scienza, la nostra, rende credibile la possibilità della coincidenza tra la trasformazione del corpo in un oggetto e l’ottenimento della felicità attraverso il suo uso” (G. Lo Castro, 2002).

La nostra società ordina il “godimento del corpo” ed impone che sia senza limiti.
[…] In virtù di ciò si osservano non poche difficoltà soprattutto nella gestione di un corpo non piú imbrigliato da quei limiti che migliaia di anni di esperienza umana avevano resi opportuni” (ibidem)

È infatti risaputo, soprattutto tramite l’esperienza clinica, che un corpo che grida troppo forte il suo bisogno di godimento, in assenza di un valido sistema di regolazione esterna, diventa un’insostenibile fonte di angoscia.

Lo testimoniano le sempre piú diffuse patologie della dipendenza: da sostanze stupefacenti, da fumo, da alcol, da farmaci, da “cibo”;
queste ultime particolarmente connesse anche alla questione dell’immagine, che rappresentano un “attacco diretto e spietato al proprio corpo”, in questi casi “voracemente riempito” dagli eccessi alimentari o “mortificatamente svuotato” dalle pratiche anoressizzanti.

Sempre piú spesso oggi, infatti, il proprio corpo “tradisce”, anche e soprattutto perché non consente di incarnare i canoni estetici ideali, e non risulta dunque all’altezza dello sguardo dell’altro:
non ci si può sottrarre dallo sguardo altrui, e ciò provoca spesso sofferenza perché esso viene percepito come “critico e giudicante”; il desiderio dell’altro, in fondo, è quasi sempre avido e rapace …” (G. Lo Castro, 2002).

Considerazioni:

La relazione dell’essere umano col proprio corpo non è dunque sempre facile: “l’uomo moderno, così esperto nel maneggiamento del virtuale, appare maldestro nella gestione della consistenza reale del suo corpo”.

Nuove forme di sofferenza, presentate da una quantità sempre maggiore di soggetti (giovani e non piú giovani) sembrano testimoniare il fatto che il corpo si comporta come “un supporto” sul quale il piacere così come il disagio si possono scrivere, tanto al suo interno quanto all’esterno (questo è quanto ci viene insegnato anche dai sintomi psicosomatici).

La parte piú o meno conscia del soggetto, attraverso certi comportamenti e manifestazioni sintomatiche, sembra voler apporre sul corpo la propria “firma”, “scrivendogli sopra segni che ne modificano l’originaria forma”.

In fondo è ciò che l’uomo ha fatto sin dalla notte dei tempi spalmandogli sopra argilla o cenere, segnandolo con dei tatuaggi o con pratiche di scarificazione, branding e cutting. Egli ha trasformato il suo organismo in qualcosa di differente, oltrepassando il limite di elementi naturali, ed introducendolo così nel “mondo della cultura”: “lo ha reso un trasduttore di segni, e se ne serve come metafora” (ibidem).

Lo ha fatto quasi adottando la stessa procedura con la quale delimitava i suoi territori di caccia, nello stesso modo in cui interveniva sugli oggetti che costruiva e che elevava alla dignità di rappresentarlo: vi ha tracciato sopra dei segni, vi ha apposto la sua firma.

Firmare ha la stessa etimologia di fermare, arrestare, delimitare, separare dal resto, inserire elementi di differenza che definiscono un’identità: è ciò che fa la cultura sulla natura; è questo ciò che gli esseri umani fanno sul loro organismo quando lo individuano come il proprio corpo. […] lo rendono assimilabile all’argilla e al legno che lo scultore intaglia e assembla per rendere visibile agli altri la sua idea del mondo: un oggetto fisico qualsiasi, solo materiale grezzo da plasmare” (ibidem).

Appare ovvio come la società dei consumi sia ben felice di questa operazione; il corpo cosí inteso, trattato e manipolato alla stregua di un oggetto qualsiasi, le è “prezioso”; diventa di certo “utile”, poiché si presta ad essere il gadget perfettamente idoneo a rappresentare -grazie soprattutto al riferimento al piacere sessuale- l’appagamento pieno, la possibilità della felicità più completa derivante da un suo “uso” smodato e senza limiti.

Peccato che questa non sia la “via della felicitá” per il soggetto che si ritrova, cosí, con “un corpo senz’anima”. E cos’è un corpo senz’anima se non esclusivamente un mero organismo privato della sua “umanitá”, intesa come accettazione della sua “imperfettibilitá”?

In questo stato di disagio in cui la nostra società si trova, forse soltanto l’Etica, introducendo la “questione del senso” può consentire il recupero dei veri valori e significati, indispensabili per poter andare oltre la contingenza spazio-temporale alla quale è inchiodata la consistenza reale di ogni singolo individuo.

L’immagine corporea:

Dopo queste considerazioni ritenute indispensabili per poter comprendere al meglio i meccanismi che entrano in gioco nel fenomeno del body shaming, si vuole continuare facendo riferimento al seguente assunto: il modo in cui appare il nostro corpo è definito “immagine corporea”.

Volendo entrare in un discorso piú complesso soprattutto da un punto di vista psicologico, bisogna specificare che essa però non è data solo dalle caratteristiche fisiche, ma è il prodotto di una varietà di fattori.

P. Slade (1988) la definisce come “quell’immagine che abbiamo nella nostra mente della forma, dimensione e taglia del nostro corpo, e dei sentimenti che proviamo rispetto a queste caratteristiche”.

Essa, dunque, non è solo un mero dato estetico ma è strettamente legata alla “dimensione emotiva”: i sentimenti che si provano verso il proprio corpo influenzano la percezione che se ne ha di esso, e viceversa.

Il corpo è la sede fisica preposta ad accogliere la manifestazione di tutti gli eventi psichici; corpo, dunque, inteso come organismo dotato di un suo aspetto esteriore e di una propria specifica estensione nello spazio, ma anche di una sua irripetibile identità, che è invece il centro dell’esperienza di Sé.

Esperienze passate – riguardanti soprattutto l’ambito familiare- e contesto culturale di appartenenza influiscono sulla formazione della “percezione” della propria immagine corporea, che può essere “obiettiva e realistica”, o “distorta ed alterata”:

esperienze evolutive avverse, come l’influsso di umiliazioni subite per il proprio aspetto fisico, o un’infanzia caratterizzata da eccessivi apprezzamenti sulle proprie fattezze frutto di un’estrema importanza data all’apparenza, condizionerebbero lo sviluppo della percezione della propria immagine corporea;

– i modelli culturali parteciperebbero invece al processo di costruzione dell’ immagine corporea (alla cui elaborazione concorre soprattutto la “componente sociale”), attraverso processi di “identificazione” e di “imitazione”, ed il “confronto” tra la propria immagine corporea e le immagini corporee altrui:

Un’immagine corporea è sempre, in qualche misura, la somma delle immagini corporea della società, e muta seconda di colui col quale ci articoliamo. […]Noi agiamo come un apparato percettivo, ma il modello mentale della nostra immagine corporea e il frutto di una “continua attività interna di autocostruzione ed autodistruzione”, ed esso vive continuando a differenziarsi ed integrarsi” (P. Shilder, 1973).

In base al Modello Tripartito di Influenza (Thompson et al., 1999), oltre alle esperienze passate -vissute soprattutto in ambito familiare-, ed ai modelli culturali di riferimento, anche le esperienze presenti e soprattutto il “rapporto con i pari” influirebbero su eventuali “alterazioni” della percezione della propria immagine corporea determinando, in alcuni casi, stati di sofferenza non indifferenti.

È oramai indiscusso ed assodato il concetto secondo cui l’immagine corporea è “influenzata dalle esperienze interpersonali”, ed anche il parere e le impressioni che provengono dai “pari” contribuiscono a determinare i modelli corporei con cui ci si confronta, gli standard a cui ci si riferisce per valutare il proprio aspetto estetico.

I commenti verbali relativi all’immagine corporea sono feedback che l’individuo riceve circa il proprio aspetto fisico, e varie ricerche hanno dimostrato come l’influenza dei “pari” -tramite commenti negativi e prese in giro circa l’apparenza- sia predittore significativo del livello di insoddisfazione corporea soprattutto di preadolescenti ed adolescenti (Keery, van den Berg, & Thompson, 2004; Matera, Nerini, &Stefanile, 2013; Shroff & Thompson, 2006; Thompson et al., 2007; van den Berg, Thompson, Obremski-Brandon, & Coovert, 2002).

Il fenomeno del body shaming:

Strettamente connesso a ciò appare il fenomeno del “body shaming”, pratica oggigiorno sempre piú diffusa, grazie anche all’ausilio del Web, che consiste nel prendere di mira un soggetto per una sua caratteristica fisica qualsiasi (altezza, peso, colore della pelle o dei capelli…), che viene stigmatizzata attraverso l’espressione pubblica e plateale di commenti e giudizi negativi.

Ciò si manifesta soprattutto sui Social, attraverso commenti sgradevoli ed offensivi sulle bacheche, nei forum ed, in maniera prevalente, sotto le foto postate pubblicamente.

Nel momento in cui si posta una propria foto bisogna essere consapevoli che, oltre a poter suscitare apprezzamenti e complimenti, si potranno ricevere anche critiche ed offese. Una foto può suscitare varie reazioni negli utenti: i cosiddetti “haters” -da “hating” (odiare)-, sono coloro che riversano nei commenti “cattiverie pure” per il solo gusto di suscitare scalpore attaccando il soggetto ritratto. Purtroppo questi commenti negativi sono rivolti e vanno a colpire proprio insicurezze e/o caratteristiche fisiche che i destinatari giá vivono come un problema” (R.M. Puhl, 2006).

I soggetti in questione vengono cosí denigrati con l’intenzione deliberata di minarne la sicurezza ed isolarli, facendo provare loro una forte vergogna per il proprio aspetto.

Il termine “body shaming” deriva appunto dalle parole inglesi body, (corpo) e shame (vergogna), e proprio questo sentimento appare centrale nelle dinamiche che scattano nel fenomeno in oggetto.

La vergogna, in generale, è un’emozione complessa che nasce dal giudizio personale di essere inadeguati. Chi “si vergogna” mette in discussione sè stesso, alcune proprie caratteristiche e ciò, di conseguenza, genera un senso di impotenza ed inferiorità”, che induce a nascondere proprio le parti di sé bersaglio, a nascondersi in generale, a tacere…

La vergogna, inoltre, si associa spesso a “rabbia ed aggressività”. Provare vergogna di sé genera rabbia soprattutto verso sè stessi, con la possibilità di mettere in atto gesti autopunitivi o autolesivi; la rabbia, inoltre, può dirigersi verso gli altri se questi sono considerati la causa della propria sensazione di inferiorità e di non valore.

(Nel caso del body shaming è molto piú frequente la prima ipotesi: i soggetti vittime di tale fenomeno aggrediscono 8 volte su 10 sé stessi, anziché gli autori delle offese; anche perché, soprattutto quando la spiacevole dinamica è esercitata online, si ha difficoltà a raggiungerli fisicamente, e ciò genera ancora piú frustrazione ed impotenza in quanto tutto rimane confinato nella dimensione virtuale, ma non per questo provoca minore sofferenza).

A proposito della vergogna, Sjoberg et all. (2005) sostengono che essa abbia un potere particolarmente doloroso ed angosciante, in quanto emozione potenzialmente deprimente. “Se si vive in un costante senso di inferiorità e disvalore e si ha la pressante convinzione di avere qualcosa che non va, ciò aumenta la possibilità di sviluppo di una problematica psicopatologica”.

Gli effetti del body shaming possono dunque essere devastanti, tanto che alcune vittime arrivano a provare disgusto per sé stessi e persino ad odiarsi, finanche ad incappare in conseguenze estreme quali stati depressivi, disturbi del comportamento alimentare (con netta prevalenza di anoressia) e suicidio.

Nei casi meno estremi si avranno comunque delle ripercussioni negative sulla propria “autostima”, in quanto il divario risultante dal frustrante confronto tra il proprio aspetto fisico ed i canoni estetici di riferimento, verrà ulteriormente confermato ed amplificato dal giudizio altrui, che non fará che convalidare la sconfitta irrecuperabile proveniente dal “non essere all’altezza”.

In virtú di ciò è frequente passare molto tempo davanti ad uno specchio, effettuando continui “body checking”, ossia comportamenti di controllo di peso, taglia, circonferenze o, al contrario, evitare qualunque superficie che possa riflettere la propria immagine, oltre a tentare di nascondere in qualunque modo le presunte ed addebitate imperfezioni fisiche per le quale si viene derisi.

In tali circostanze anche l’”umore” risulterà compromesso per via dell’impossibilità del raggiungimento di certi standard affinché potersi sentire “accettati e desiderabili”.

In un contesto sociale che considera l’apparenza sopra ogni cosa, chi non soddisfa i criteri di omologazione vedrá l’instaurarsi di stati depressivi che lo spingeranno sempre piú a nascondersi ed isolarsi, per evitare il doloroso confronto con chi rispecchia meglio di sé certi canoni ambìti.

Conclusioni:

Sebbene il body shaming sia sempre esistito (anche se purtroppo non debitamente attenzionato), oggi se ne parla moltissimo soprattutto grazie all’avvento del Web e con esso, di alcune specifiche modalità di attuazione che garantiscono l’inafferrabilitá fisica immediata a chi mette in atto tali condotte scorrette, e promuovono un senso di de-responsabilizzazione degli stessi.

La digitalizzazione, infatti, incoraggia e sostiene fenomeni quali la de-umanizzazione di chi sta “dall’altra parte dello schermo”, che si ritrova sprovvisto di ogni parvenza di empatia e per questo si ritiene in diritto di dire tutto ciò che pensa, incurante delle conseguenze.

Il fenomeno del body shaming risulta purtroppo connesso alle dinamiche imperanti in questa nostra società dell’immagine: oggi i modelli perfezionistici proposti portano a preoccuparsi eccessivamente del proprio aspetto fisico, facendo credere che un “corpo perfetto” sia il solo mezzo per ottenere successo e attenzioni.

In una realtà del genere sempre più soggetti si trovano ad avere esperienze di “alterata” percezione del proprio aspetto, ritenuto anni luce distante dagli standard estetici di riferimento, ma in realtà vicino a quello della maggior parte delle persone.

Nella società attuale, le immagini ormai da tempo legittimate quali “standard estetici di riferimento” impongono un’idea di bellezza intesa come “insieme di tratti talmente rigidi e definiti che risulta praticamente impossibile possedere e/o raggiungere”.

I mass media diffondono quotidianamente un’idea di corpo che non corrisponde per niente a quella dei corpi reali posseduti dalla maggior parte delle persone.

Ecco che allora, in virtú di ciò, nessuno è immune da “body shaming”, tutti possono essere potenzialmente colpiti da questa tipologia di critiche e molestie, poiché nessun corpo è universalmente considerato perfetto.

Le critiche che caratterizzano il fenomeno del body shaming vengono mosse a coloro che si ritiene non incarnino perfettamente i canoni estetici promossi dalla società: questo significa che chiunque è potenzialmente attaccabile poiché nessun corpo è perfetto, ed anche se lo fosse, non sarebbe universalmente riconosciuto come tale (B. Major et all., 2017).

Il “corpo ideale”, inteso come luogo da abitare e nel quale stare bene, non può mai essere frutto di una moda o di un’imposizione, ma di un’autentica ricerca personale e soggettiva, che dia spazio anche e soprattutto alla componente psichica e spirituale.

Esso è già dentro la persona, e quel che basterebbe sarebbe solo liberarlo da preconcetti e condizionamenti.

La vera bellezza non ha un peso né una taglia, ed i “corpi reali” non hanno nulla a che vedere con i modelli stereotipati che la moda e la pubblicitá ci proponiamo continuamente.

Una buona società dovrebbe basarsi sul rispetto dell’altro e non ci dovrebbero essere discriminazioni di alcun genere; ogni persona è difatti unica ed irripetibile, e bisognerebbe piuttosto avere rispetto della diversità e delle caratteristiche individuali di ciascuno, anziché spingere ed invitare ad un’omologazione mortifera che toglie il diritto di espressione di ogni forma di soggettività.

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Bibliografia e Sitografia:

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-Brousse M. H. (2000). “Ravage et désir de l’analyste”, in Ornicar? Digital n. 145

-M. Agostini, Il tema del doppio attraverso la teoresi psicoanalitica: Jacques Lacan e lo stadio dello specchio https://www.stateofmind.it/2017/01/jacques-lacan-specchio/

-M. Barbuto, (2002). La psicoanalisi e il corpo. Ellissi- Esselibri, Napoli.

-C. Menghi, (2002). “Antigone e il corpo estraneo della donna”, (par 3: L’essere umano “ha” un corpo). In “La psicoanalisi e il corpo”, M. Barbuto, 2002.

-G. Lo Castro, (2002). “Il corpo supporto di scritture”. In “La psicoanalisi e il corpo”, M. Barbuto, 2002.

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-P. Schilder, (1973). “Immagine di sé e schema corporeo”. Milano: Franco Angeli. (Da Rivista, Nuovi Orizzonti, Anno VIII° – n. 15 Gennaio-Giugno 2016).

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Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica, in formazione presso Scuola di Psicoterapia ad orientamento Sistemico-Relazionale, Responsabile Settore Comunicazione Pronto Soccorso Psicologico-Italia