A cura del Prof. Mariano Indelicato, Presidente Pronto Soccorso Psicologico
Abstract
Jealousy, over time, has been considered an essential element of love: “He who is not jealous cannot love” (A. Cappellano). Even a famous 18th-century essayist, Francesco Algarotti, giving voice to the theories that claim that it is the counterpart of love, goes so far as to state that “jealousy has to enter into love, like nutmeg in food. It has to be there, but it doesn’t have to be felt.” Yet, if we look for the definition of jealousy in any dictionary, we find it is an “anxious torment caused by the fear of losing the loved one to others”. Jealousy arises from fear, not, as is usually believed, from love. De Mello claims that there are only two emotions: love and fear. Jealousy, therefore, should be understood as the fear of loving. In contrast to the romantic vision of jealousy, Marcel Proust writes that “jealousy is often only a restless need for tyranny applied to the things of love”. By ‘love’, we often mean a kind of monopoly, a possessiveness, without understanding a basic fact of life: when you possess a living being, you have killed it. The professor. Zino, psychoanalyst and author of the essay “Jealousy”, maintains that “the request for analysis can present jealousy as something from which one wants to defend oneself, and concerning it invokes a barrier, at most a disappearance; but together we perceive that jealousy is what the subject himself is most captured by, and cannot do without it. It’s his trap, but he loves his jailer. It’s his identity.” Jealousy, therefore, becomes a pathological way in which love is expressed.
Riassunto
La gelosia nel corso del tempo è stata considerata un elemento essenziale dell’amore: “Chi non è geloso non può amare” (A. Cappellano). Addirittura un famoso saggista del ‘700, Francesco Algarotti, dando voce alle teorie che sostengono che essa il contraltare dell’amore, arriva ad affermare che “la gelosia ha da entrare nell’amore, come nelle vivande la noce moscata. Ci ha da esser, ma non si ha da sentire”. Eppure se cerchiamo la definizione di gelosia in un qualsiasi dizionario troviamo che essa è un “ansioso tormento provocato dal timore di perdere la persona amata ad opera di altri”. La gelosia nasce, dunque, dalla paura, non già, come si crede di solito, dall’amore. De Mello sostiene che esistono solo due emozioni: l’amore e la paura. La gelosia, quindi, dovrebbe essere intesa come la paura di amare. Marcel Proust, in contrasto con la visione romantica della gelosia, scrive che “la gelosia è sovente solo un inquieto bisogno di tirannide applicato alle cose dell’amore”. Spesso per ‘amore’ si intende una specie di monopolio, una possessività, senza comprendere un fatto basilare della vita: quando possiedi un essere vivente, lo hai ucciso. Il prof. Zino, psicoanalista autore del saggio “Gelosia”, sostiene che “la domanda di analisi può presentare la gelosia come qualcosa da cui vuole difendersi, e rispetto ad essa invoca un argine, al limite una scomparsa; ma insieme avvertiamo con evidenza che la gelosia è ciò da cui il soggetto stesso è più catturato, e non può farne a meno. E’ la sua trappola ma ama il proprio carceriere. E’ la sua identità”. La gelosia, quindi, diventa un modalità patologica con cui si esprime l’amore.
Introduzione
Francesco Algarotti, saggista del ‘700, afferma che “la gelosia ha da entrare nell’amore, come nelle vivande la noce moscata. Ci ha da esser, ma non si ha da sentire”. La contessa Maria de Champagne nel “De Amore” di Andrea Cappellano, quasi a voler confermare quanto sostenuto da Algarotti, rispondendo a una richiesta di due in procinto di diventare amanti, sostiene che “ …. Queste definizioni riportano una visione romantica della gelosia dando voce alle teorie che sostengono che essa è il contraltare dell’amore. La Dott.ssa Frandina, autrice insieme al Prof. Giusti del libro “Terapia della Gelosia e dell’Invidia, sostiene che la gelosia romantica è quella “delle ardenti passioni, delle contrastanti emozioni, degli attimi traditi, del dico non dico, di una verità pubblica e di una menzogna privata. …. È la memoria di odori, è un messaggio rubato, è un gioco di intrecci e di passioni che ci emoziona, ci avvicina all’altro, ce ne allontana.”
La visione romantica della gelosia, da non confondere con la gelosia romantica, tende a sottolineare che essa è un elemento essenziale dell’esperienza amorosa. Spesso il luogo comune ci porta a pensare che se una persona ama tanto non può fare a meno di essere gelosa. Eppure se cerchiamo la definizione di gelosia in un qualsiasi dizionario troviamo che essa è un “ansioso tormento provocato dal timore di perdere la persona amata ad opera di altri”.
La gelosia nasce, dunque, dalla paura, non già, come si crede di solito, dall’amore. De Mello sostiene che esistono solo due emozioni: l’amore e la paura. La gelosia, quindi, dovrebbe essere intesa come la paura di amare. In apparenza spesso in psicoterapia, in situazioni di crisi affettive sia matrimoniali che di fidanzamento o convivenza, sentiamo frasi del tipo “gli/le ho chiesto di allontanarsi (o mi sono allontanato/a) per capire se sento il suo bisogno, se sono geloso/a” ed, ancora, “mi sono accorto/a che non è geloso/a e quindi non mi ama”. Spesso l’amore viene confuso con il possesso tant’è che le persone a cui siamo affettivamente legate siamo abituati a considerarle una cosa personale (“la mia ragazza” o “mio marito”, “il mio amico”, “mio figlio”) e ragioniamo, anche senza esserne consapevoli, come se effettivamente ci appartenessero.
Marcel Proust, in contrasto con la visione romantica della gelosia, scrive che “la gelosia è sovente solo un inquieto bisogno di tirannide applicato alle cose dell’amore”. Spesso per ‘amore’ si intende una specie di monopolio, una possessività, senza comprendere un fatto basilare della vita: quando possiedi un essere vivente, lo hai ucciso.
Il Prof. Volterra, autore del libro “La Gelosia il Mostro dagli Occhi Verdi”, sostiene che “lo stereotipo ……. è che la gelosia sia indice di amore quando è invece indice d’insicurezza per chi ce l’ha ed è un sentimento negativo e distruttivo, che fa soffrire sia chi ne è tormentato che la vittima”. Roland Barthes, celebre saggista e semiologo francese, mettendo in risalto la contraddizione tra razionalità e irrazionalità spesso presente nella gelosia, scrive “Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perché mi rimprovero di esserlo, perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l’altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri” (1977). Da un alto, capiamo che l’essere gelosi comporta sofferenza e spesso non aderenza alla realtà, dall’altro, sembra che ci sia una forza invisibile che ci spinge a dubitare, a cercare, ad agire in modo sbagliato, a soffocare chi ci sta accanto.
Il prof. Zino, psicoanalista autore del saggio “Gelosia”, sostiene che “la domanda di analisi può presentare la gelosia come qualcosa da cui vuole difendersi, e rispetto ad essa invoca un argine, al limite una scomparsa; ma insieme avvertiamo con evidenza che la gelosia è ciò da cui il soggetto stesso è più catturato, e non può farne a meno. E’ la sua trappola ma ama il proprio carceriere. E’ la sua identità”. La gelosia, quindi, diventa un modalità patologica con cui si esprime l’amore.
Considerazioni
La famiglia – scrivono Vittorio Cigoli ed Eugenia Scabini – è il luogo dove convivono l’ethos (cioè l’alta assunzione di responsabilità nei confronti dell’altro/a) e il pathos (che è la facoltà squisitamente umana di sentire le gioie e le pene dell’incontro profondo). Senza il pathos l’amore diventa sterile, forzato, piatto. Senza l’ethos resta un bambino che vive delle emozioni e dei capricci del momento, e non permette lo sviluppo del legame, necessario per affrontare le tappe che la vita ci propone. Non è semplice farli convivere, ma neppure impossibile.
L’ethos è il “patto fiduciario” della relazione coniugale che ha nel matrimonio il suo atto esplicito ed è caratterizzato dai seguenti elementi, così come individuati dagli stessi autori: la comune attrattiva, la consensualità, la consapevolezza, l’impegno a rispettarlo, la delineazione di un fine.
Il Pathos è “l’incastro di bisogni, desideri e paure “ e fa riferimento “all’attrattiva, cioè ciò che ha attratto i due nella stessa orbita, che è un misto di bisogni, di speranza e di difesa da pericoli che i partner si aspettano di trattare nel rapporto di coppia”.
E’ evidente che l’ethos fa riferimento all’esplicito, al razionale mentre il pathos ad esigenze emotive che nella maggior parte dei casi sfuggono alla nostra consapevolezza, tantè che sempre i nostri autori individuano due tipi di patto uno dichiarato e l’altro segreto. Quello dichiarato può essere condensato nelle promesse matrimoniali, mentre quello segreto invece è rappresentato da tutte le istanze emotive ed affettive che si ricercano nell’altro.
A questo primo livello si collocano due tipi di gelosia: una legata all’ethos e l’altra legata al pathos.
Quella legata all’ethos può essere definita come gelosia “sana”: è quella che avvertiamo quando si profila una minaccia “concreta” alla nostra relazione affettiva, ovvero quando ci sono minacce esplicite alle promesse matrimoniali come ad esempio la presenza di un’altra persona e il non ricevere le giuste attenzioni.
La gelosia, comunque, è perlopiù legata al pathos. Bolwby sostiene che la gelosia è “una risposta emotiva legata al pericolo di perdita e sottrazione del partner, che è connessa a reazioni di angoscia, rabbia e aggressività che hanno la funzione di proteggere la relazione stessa” .
Freud distingue tre forme di gelosia tutte legate ad istanze inconsce:
La gelosia competitiva che è “essenzialmente composta dall’afflizione, il dolore provocato dalla convinzione di aver perduto l’oggetto d’amore, e dalla ferita narcisistica, ammesso che questa possa essere distinta dal resto; infine, da sentimenti ostili verso il più fortunato rivale, e da una dose più o meno grande di autocritica che tende ad attribuire al proprio Io la responsabilità della perdita amorosa. Anche se la chiamiamo nomale, questa gelosia non è certo interamente razionale, ossia determinata dalla situazione attuale, proporzionata alle circostanze affettive e sotto il completo controllo dell’Io cosciente; anzi essa è profondamente radicata nell’inconscio, è la continuazione dei primissimi impulsi della vita affettiva infantile e trae origine dal complesso edipico o da quello fratello-sorella del primo periodo sessuale”.
La gelosia proiettiva legata alle proprie trasgressioni e/o infedeltà o al desiderio di infedeltà che vengono rimosse. Per esigenze super egoiche non si rimuove l’idea del tradimento e si tende a proiettarlo sull’altro/a. La proiezione ci permette di dar voce a questi impulsi senza entrare in conflitto con noi stessi.
La gelosia delirante che è un disturbo psicopatologico caratterizzato dalla convinzione, spesso infondata, che il proprio partner sia infedele. Tale convinzione porta a mettere in atto una serie di comportamenti (ricerca di indizi, domande assilanti, interpretazioni non reali, allusioni, etc) al fine di provare l’infedeltà contestata. Un esempio di questa forma irrazionale di gelosia è la Sindrome di Otello ripresa proprio dal dramma di Otello, che malgrado le rassicurazioni di Desdemona, decide che essa deve morire per una sua presunta infedeltà. Per Freud tale forma di gelosia nasce, come per la gelosia proiettiva, da esigenze super egoiche legate ad una propria infedeltà. In questo caso, però, l’oggetto della relazione sessuale e/o la fonte di attrazione è dello stesso sesso. La gelosia delirante, quindi, è una forma di omosessualità latente. Essa è un “ tentativo di difesa contro un impulso omosessuale troppo forte, essa potrebbe essere descritta (nel caso dell’uomo) mediante la formula: non sono io che lo amo, è lei che lo ama”.
Oltre a Freud e molti altri psicoanalisti, vari autori mettono in relazione la gelosia con il pathos ovvero con istanze emotive che per la psicanalisi hanno sede nell’inconscio.
Dicks, psicoanalista britannico, definisce il legame di coppia come l’incastro di due mondi interni, da intendersi, come il tentativo più o meno cosciente, di risolvere attraverso l’unione le problematiche individuali. Secondo questo autore , questo incontro può portare ad una evoluzione positiva o, al contrario, ad una collusione propiziatrice di una relazione distorta. In particolare si tende a respingere aspetti di se negativi forzando l’altro a rivestire quei contenuti che non possono essere assunti in proprio perché dolorosi e inaccettabili.
Robin Skynner afferma che “La moglie e il marito si sono scelti reciprocamente su una base altamente percettivo-intuitiva (presumibilmente fondata su informazioni non verbali) così che le relazioni e i ruoli che essi adottano, e in cui “cadono” entrambi, sono strettamente correlati. A un livello superficiale essi possono essersi scelti reciprocamente per somiglianza o differenza da qualche figura genitoriale, ma se si va più in profondità si trova a una somiglianza crescente in aspetti fondamentali ma negati del back-ground modellante, e risulta, in seguito ad un attento esame, che i mondi intimi delle coppie sono sempre più condivisi”.
All’interno del modello relazionale simbolico le esigenze narcisistiche (tipiche della gelosia competitiva), le esigenze superegoiche (tipiche della gelosia proiettiva e della gelosia delirante) in cui l’altro diventa indispensabile per la nostra sicurezza e per le nostre relazioni, costituiscono ciò che E. Scabini e V. Cigoli hanno definito “l’anti-patto” in cui “l’intesa” relazionale è nulla, lo scambio è impossibile perché l’altro non è percepito nella sua realtà e nel suo bisogno; egli è piuttosto il contenitore dei propri aspetti rifiutati e non riconosciuti che vengono proiettati nell’altro”. Non ci si sposa con l’altro in quanto tale ma si sposano singoli aspetti come “ho sposato questo di te” o “Ho sposato quest’altro di te”. Questi elementi hanno portato Cigoli ad inserire all’interno dell’Intervista Clinica Generazionale, un metodo e un modello di lavoro con le coppie, di una domanda precisa : Che cosa ha sposato del suo/a partner.
Al contrario, cioè la perfezione del patto si “configura come un’intesa di coppia che appoggia e alimenta l’unicità e l’irripetibilità della persona amata, accettata nei suoi limiti e desiderata nelle sue caratteristiche: sposo te perché sei tu” (E. Scabini – V. Cigoli). Le relazioni familiari si caratterizzano per uno scambio simbolico in cui si da all’altro ciò che si pensa e auspica abbia bisogno e, nel contempo, avendo fiducia che l’altro ricambierà con un “equivalente simbolico”. Secondo il modello relazionale simbolico questo scambio avviene attraverso un “dono”.
C’è una celebre frase del jazzista R. Gualazzi che riesce a cogliere il valore del dono all’interno della relazione “l’unione fa la forza e se ognuno rimanesse aperto alle esperienze altrui senza essere troppo geloso nel donare ciò che ha appreso, questo scambio genererebbe una inevitabile evoluzione”.
Goldbout , come riportato da Cigoli nel “Il Famigliare”, sostiene che il “dono” è “una caratteristica del legame incondizionato: il legame familiare si alimenta di azioni che prestano fiducia all’altro e ha alla sua origine un quid di gratuito”. In questo approccio la fiducia diventa elemento essenziale dello scambio. Al contrario, l’incapacità di donare e la perversione del dono (con un uso prettamente strumentale e di definizione di rapporti di potere) costituiscono le forme della patologia relazionale.
Cigoli nell’Albero della Discendenza (op. cit) individua in un quadro di famiglia, “La festa di San Nicola” di Steen conservato al Rijsksmusumeum di Amsterdam, la rappresentazione pittorica della “magia del dono”. Nell’opera i figli presenti sono preoccupati dei regali ricevuti o che devono ricevere. La bimba viene invitata dalla madre a farle vedere la bambola ricevuta in dono, un’ altro figlio piange per non aver avuto nessun regalo e viene invitato dalla nonna dietro la tenda dove c’è un dono anche per lui, il padre invita il figlio più piccolo a guardare in alto da dove potrebbero arrivare i regali. Tutta la famiglia è preoccupata per i doni da dare ai figli. La magia del dono è “un segno del bene incondizionato che deve venire dalle generazioni precedenti”.
Nel Dono di Natale di M. G. Deledda, in un contesto di povertà assoluta, il papà di Lia porta in dono alla famiglia un fratellino che ha acquistato a mezzanotte precisa la notte di Natale le cui ossa disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Il papà da una grande gioia alla famiglia portando il Divino Bambino.
Al contrario, nella novella di Verga “la roba” viene descritto il dramma della mancanza del dono, dell’incapacità di donare. L’analfabeta Mazzarò è il contadino che diventa ricchissimo a forza di lavoro e sacrifici e che per evitare di sperperare e dividere il suo patrimonio non si sposa e non ha figli. Diventato vecchio dovendosi confrontare con la morte uccide parte del suo bestiame nel tentativo di portarselo con sé nell’aldilà in quanto dopo la morte, e Mazzarò ne è purtroppo cosciente, la “roba” accumulata in vita non varrà più niente. L’incapacità a donare porta all’annullamento del sé, alla mancanza di prospettive.
L’incapacità a donare non è visibile solo sui beni materiali ma anche nel non riuscire a dare all’altro ciò di cui ha bisogno e necessità. Nadia Somma e Mario De Maglie nell’analizzare la Madame Bovary di Flaubert concentrano la loro attenzione sul dramma di Berthe, la figlia nata dal matrimonio con Chalrles Bovary. Flaubert fa stare Berthe sullo sfondo, quasi in un cantuccio e Emma Bovary non prende mai in considerazioni i bisogni della figlia in quanto desiderava un figlio maschio. Emma prova un grande dolore quando le nasce una figlia femmina in quanto “una donna ha continui impedimenti. Ha un tempo inerte e cedevole, ha contro di sé le debolezze della carne e la sottomissione alle leggi. La sua volontà, come il velo del suo cappello tenuto da un cordoncino, palpita a tutti i venti, c’è sempre un desiderio che trascina, e una convenienza che trattiene.” Si avverte che Berthe si sente abbandonata, la mancanza di dono materno sicuramente la espone ad insicurezza e a perdere la speranza e la fiducia, come vedremo fra poco di poter essere ricambiata sul piano affettivo. Come abbiamo precedentemente detto, inoltre, il vissuto di abbandono può portare alla gelosia ossessiva.
La gelosia, quindi, potrebbe essere frutto di un dono “perverso” e in quanto tale, così come le caratteristiche di gelosia individuate da Freud, non può che portare alla patologia di tipo relazionale.
Cosi come descritto da E. Scabini e V. Cigoli, la relazione perversa e patologica, attraverso la quale uno dei membri tenta di avere il dominio e la sudditanza dell’altro, si esplica con “il bisogno di possedere l’altro e di ridurlo alla propria mercé con l’uso di tecniche quali la seduzione, la minaccia, la delegittimazione, l’umiliazione, l’opposizione fredda, la corruzione”. Tale bisogno è talmente “imperioso” che diventa “ l’unico modo di vivere la vita, la discordia può contrassegnare fortemente la vita intera di coppia”. La gelosia diventa uno degli elementi con cui poter realizzare il suddetto piano attraverso, ad esempio, la segregazione o l’allontanamento dagli amici e dalla vita sociale il partner.
Il dono da solo comunque non basterebbe ad individuare l’asse simbolico della relazione familiare. Infatti, gli autori ritornando alle relazione tra ethos e pathos identificano in fiducia e speranza le qualità del polo affettivo e in giustizia e lealtà quelle del polo etico. Jurkovic , come citato dagli stessi autori, sostiene che “giustizia e fiducia sono ingredienti essenziali nelle relazioni familiare sane”. Ovviamente il loro opposto costituisce l’area insana che Scabini e Cigoli individuano nel diabolico che diventa “ciò che spezza la connessione e il legame e non consente il riconoscimento e la comprensione”.
Nel polo affettivo la fiducia diventa l’elemento essenziale affinchè avvenga lo scambio relazionale dell’equivalente simbolico. Se uno dei partner non ha fiducia e speranza di essere ricambiato si inserisce la patologia relazionale ed un terreno fertile per la nascita di sentimenti di gelosia. Quest’ultimi possono nascere secondo questo modello o per l’incapacità a donare (mancanza di fiducia che l’altro possa ricambiare) o per incapacità a ricambiare. Infatti, nell’ambito dello scambio relazionale , se da un lato esiste un dono dall’altro deve esistere un debito. Nel caso di uno scambio relazionale sano il debito deve essere positivo. Con un debito negativo il soggetto ha una effettiva incapacità a ricambiare. Il modello, comunque non può essere letto e analizzato come lineare ma circolare. Un soggetto con un debito negativo non ha speranza e fiducia nel donare e il mancato dono non fa altro che rafforzare un debito negativo e, quindi, l’incapacità a ricambiare.
Se applichiamo, infatti, il modello dello scambio relazionale alle tre forme di gelosia individuate da Freud possiamo notare che:
Nella gelosia competitiva, da un lato, non dona perché non ha fiducia nei propri mezzi e nelle proprie capacità (ferita narcisistica) e, dall’altro, ha un debito negativo rispetto alla propria evoluzione personale (complesso edipico e rapporti fratello-sorella) e, quindi, si sente incapace di ricambiare;
Nella gelosia proiettiva non dona perché non ha fiducia nella propria fedeltà e, in quanto, indefedele si sente incapace di ricambiare;
Nella gelosia delirante non dona perché non ha fiducia nella propria eterosessualità e in quanto tale si sente incapace di ricambiare (debito negativo).
Nel modello relazionale simbolico un altro elemento essenziale è l’intergenerazionalità e la transgenerazionalità che con Scabini e Cigoli possiamo sintetizzare nel Famigliare.
I nostri autori scrivono “il famigliare lega tra di loro i vivi e i morti, le generazioni passate e quelle future”. Già nelle definizioni di Freud sulla gelosia troviamo questa dimensione poiché il mancato scambio è legato ad esigenze inconsce che fanno riferimento alle relazioni con le figure primarie (padre, madre, fratello, sorella, etc.) anche se restano ancorate allo sviluppo individuale e non vengono analizzate dal punto di vista delle relazioni familiari.
Il famigliare però è qualcosa in più rispetto alle relazioni familiari. Esso è “la matrice simbolica del legame tra i sessi, le generazioni e le stirpi e dà sostanza simbolica alle singole famiglie e alle varie forme familiari. La famiglia come gruppo sociale primario che lega tra loro generi e generazioni e che produce incessantemente il passaggio tra natura e cultura può far luce sugli aspetti generativi-degenerativi delle strutture simboliche”. L’inconscio diventa “il sedimento e custode di tutto ciò che è accaduto nello scambio tra famiglie e stirpi”.
In questo modello emergono tre tipi di relazione con i relativi aspetti simbolici:
La relazione coniugale che, come abbiamo visto, è caratterizzata sulla reciprocità del dono e del debito e si basa sul patto fiduciario;
La relazione genitoriale si basa sulla cura responsabile dei figli;
La relazione tra stirpi che è basata sulla cura dell’eredità.
Sulla gelosia che può nascere all’interno della relazione coniugale abbiamo già detto.
Nella relazione genitoriale, invece, possiamo trovare gli elementi che portano ad una mancanza di fiducia in se stessi, ad una mancanza di autostima, ad una serie di insicurezze che sono gli elementi tipici delle persone gelose. Essa si basa sulla cura responsabile dei figli ed è, in qualche modo, responsabile delle “condizioni mentali e materiali che si creano per quelle successive” (Scabini – Cigoli). Molti autori e ricerche hanno messo in luce che, in genere, è più esposto alla gelosia chi nella vita infantile ha vissuto momenti di abbandono da parte dei genitori (o di chi ne faceva le veci), divenendo iperbisognoso di conferme. E non è necessario che la perdita sia avvenuta realmente: ci sono bambini molto sensibili, cui il normale livello di rassicurazioni non basta mai. Per costoro, l’idea del tradimento è terrorizzante, perché evoca dolori lontani, soverchianti. Al contrario, chi ha avuto un’infanzia più felice, ha gli strumenti psicologici per far fronte all’eventualità di un addio. Di questi aspetti nel modello relazionale simbolico è responsabile la coppia genitoriale: Quest’ultima esplica questa funzione attraverso la cura che serve ad affermare che il figlio “è degno di fiducia indipendentemente dalle sue risposte e dalle sue prestazioni” (Scabini – Cigoli). Le cure a cui va incontro il neonato sono “una risorsa inestinguibile a cui attingere nel corso della vita per contrastare l’angoscia di morte” (Scabini – Cigoli). In sostanza la cura responsabile non fa altro che creare un debito positivo che, come abbiamo detto sopra, costituisce un elemento essenziale affinchè avvenga lo scambio simbolico poiché costituisce la riserva necessaria alla capacità di donare.
Quando parliamo di cura responsabile si può far riferimento alla definizione del Collegio Universitario di Villalta:
“Prendersi cura non ha un significato univoco. Diverso è prendersi cura di una pianta, di un cane o di un uomo. Prendersi cura di un uomo non vuol dire addomesticarlo. Addomesticare, come ci insegna Saint-Exupery, significa creare legami di dipendenza, fino a far nascere in ciò che si è addomesticato il bisogno di qualcuno e considerarlo unico per sé. Finché si tratta di un cane è legittimo e non ripugna. Ma diventa offensivo se lo si pensa per l’uomo. Nessuno, per quanto grande sia il numero delle persone di cui deve prendersi cura, può porsi con loro in una relazione di addomesticamento. Prendersi cura di una persona significa innanzitutto rispettare, stimolare e valorizzare lo svolgersi della sua esistenza, secondo la progettualità che essa stessa contiene e che a priori non è conosciuta neanche dal soggetto stesso, ancor meno da chi la osserva. Nella relazione personale, il prendersi cura dell’altro non può mai rifarsi a schemi precostituiti, elaborati su esperienze pregresse, tanto da forgiare un cliché. Se l’altro è accolto nella sua unicità, colui che si prende cura dovrà necessariamente partire dalla unicità del soggetto a cui rivolge questa cura, questo comporterà un atteggiamento attento all’altro, di accoglienza, ascolto e apertura non condizionata. Nel campo antropologico, la sapienza empirica (la cosiddetta esperienza!) è fuori luogo, e se utilizzata come unico metro d’azione, è addirittura devastante. E questo in forza del fatto che l’essere di cui mi prendo cura non mi apparterrà mai come qualcosa, e qualcosa per me (lo ridurrei, altrimenti, ad un’esistenza inautentica)”.
A volte il prendersi cura dei genitori porta a questa esistenza inautentica che costituisce la base delle insicurezze tipiche della persona gelosa.
Per comprendere gli aspetti degenerativi della relazione quali la gelosia, nella relazione tra stirpi, dobbiamo andare molto lontano considerando anche gli aspetti di carattere culturale che attraversano in senso orizzontale e verticale le varie generazioni.
“La costruzione della famiglia avviene attraverso l’incontro tra estranei che si imparentano. Il Livello di estraneità muta a seconda dei tempi storici, delle appartenenze culturali e di classe sociale” (Scabini – Cigoli). La cultura che fa da sfondo alla relazione familiare, come ci indica Ida Magli, è “uno strumento biologico perché è il prodotto dell’attività encefalica; senza di essa la specie umana non avrebbe potuto sopravvivere; nelle sue espressioni però ha assunto significati e dimensioni tali che l’uomo non si accorge di usarla e quindi l’assume come sua natura al punto da non riconoscerla e da non poterla pensare in forme diverse” (1982).
E. Giusti e M. Frandina, facendo riferimento a numerosi studi sociologici ed antropologici, affermano che i comportamenti legati alla gelosia (difendere la prole, il proprio ruolo gerarchico, la propria partner, la propria prole, etc.) sono adattativi per la sopravvivenza del singolo e del gruppo. Infatti, D. M. Buss sostiene che la gelosia ha avuto origine in epoca preistorica nel momento in cui il maschio ha avvertito l’esigenza di doversi tutelare per non doversi sobbarcare il sostentamento di eventuali figli illegittimi e la donna accettava la gelosia del maschio per assicurarsi il cibo per i suoi figli.
“Dal punto di vista socio antropologico la gelosia, dunque, sembra nascere dal bisogno di stabilità sia per quanto riguarda le relazioni (dall’amicizia all’amore), sia per gli altri aspetti della vita (lavoro, territorio, proprietà, ecc.). La necessità nella stabilità dei rapporti affetivo-relazionali si pone come fondamento psico-sociale sia nell’ambito delle relazioni familiari o amicali, sia in quelle di carattere sociale-economico.” (Giusti, Frandina).
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