La grande sfida al contesto relazionale

A cura del Prof. Mariano Indelicato, Presidente Pronto Soccorso Psicologico

Introduzione

Tutti gii approcci psicologici sono concordi nell’affermare che la relazione e le relazioni sono i capisaldi attraverso cui si sviluppa l’individuo, attraverso i quali è possibile scoprire e riscoprire il senso e la direzione dell’esistenza. L’uomo  scopre di esistere attraverso il confronto con l’Altro e da questo incontro trae i valori semiotici che lo definiscono. In assenza dell’Altro il rischio è di specchiarsi, come Narciso,  all’interno di un mondo fantasmagorico pieno di paure che assumono il volto dei mostri che non siamo riusciti a sconfiggere durante la nostra infanzia. E’ solo attraverso il confronto, l’incontro con l’altro che si produce il necessario cambiamento per poterci adattare al mondo esterno che se riempiano, attraverso le proiezioni del nostro mondo interiore,   delle nostre paure diventa, a volte,  arido, ostile e minaccioso o, al contrario, assume le sembianze di un giardino rigoglioso all’interno di sabbie mobili pronte ad inghiottirci. E’ il rischio insisto nell’auto referenzialità,   che non solo comporta l’assenza dell’altro,  ma si esplica in una mancanza di empatia, in una comunicazione non efficace, in conflitti e tensioni, in una autostima altalenante, in isolamento sociale. Gli individui autoreferenziali hanno continuamente paura di poter essere manipolati a seguito dell’emergere delle loro paure e insicurezze in direzione del cambiamento. E’ questa la grande sfida insita nel confronto con l’Altro: quando sono disponibile a perdere in Io per conquistare il Noi.

la sfida relazionale

Considerazioni

Alcuni autori hanno paragonato le interazioni scaturenti dall’incontro con l’altro alla danza in cui ognuno dei partecipanti porta ed è portato ovvero diventa , a volte,  guida e, altre volte, discente in un continuo affidarsi l’uno all’altro. E’ solo incrociando e armonizzando i nostri movimenti, alla stregua di due ballerini,  che possiamo vivere la meravigliosa esperienza di tuffarci nell’altro,  di essere nell’altro e con l’altro. In fondo fin dagli albori della vita siamo alla ricerca di senso  e significati che possiamo trovare solo attraverso l’incontro con un Altro significativo. Recalcati (2016) sottolinea  che l’immaturità del bambino che viene alla vita in condizioni di insufficienza e vulnerabilità richiede la presenza dell’altro per sostenere la vita e sottrarla alla possibilità della caduta:  “il nome dell’altro che tende le sue nude mani alla vita che viene al mondo, alla vita che venendo al mondo, invoca il senso” .  E’ l’incontro con le braccia della madre che, non solo danno senso, ma tracciano possibili direzioni e significati che l’individuo percorrerà nel corso della sua esistenza. Kohut sostiene che: nel momento in cui la madre vede il bambino per la prima volta ed entra in contatto con lui, ha inizio la potenzialità di un processo attraverso il quale si stabilisce il Sé di una persona (H. Kohut, 1978).  Winnicott (1975), afferma che, all’inizio della vita, ognuno esiste solo perché parte di una relazione e, le sue possibilità di vivere e svilupparsi, dipendono totalmente dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento e appartenenza a un Altro (madre/caregiver) che si prenda cura di lui e gli dia qual senso di sicurezza e intimità che sono basilari per la crescita. Sarà proprio in rapporto alla qualità affettiva di tale relazione primaria, da quanto la figura di attaccamento sarà disponibile, protettiva, affidabile, costante e capace di un contatto caldo e rassicurante che dipenderà lo sviluppo sano del suo vero Sé. Da questo presupposto nasce la good enough mother che è quella madre che sa regredire, diventare piccola come il suo bambino, per sintonizzarsi meglio su di lui, sul suo mondo interno e su i suoi bisogni.  Bion (1972), parlando della madre sufficientemente buona di Winnicott, sostiene che essa permette al bambino di esprimere le sue angosce, le tollera e le contiene senza angosciarsi a sua volta: in questo modo ella restituisce al figlio le emozioni di lui, filtrate dal contenimento e bonificate.

 Bolwby (1976 – 1978),  individua in un  siffatto contesto relazionale   la base sicura in cui l’individuo sperimenta la presenza/assenza della madre. Infatti, quest’ultima deve essere in grado si di proteggere il figlio ma, nel contempo, deve superare la frustrazione legata allo sviluppare l’autonomia del figlio. Freud, a tal proposito, individua nel segnale d’angoscia la frustrazione che il bambino sperimenta nell’istante in cui nota la momentanea assenza della madre. E la stessa frustrazione che prova quest’ultima nel prendere  consapevolezza che il figlio non appartiene a lei  ma al mondo.  Come affermato da Racamier è il primo e il più grande lutto che madre – bambino si trovano ad affrontare, elaborare e superare: la rottura della fase simbiotica ovvero di quel sistema onnipotente, di quell’unità duale racchiusa dentro gli stessi confini (Mahler). E’ attraverso questa separazione che la madre scopre di essere nel contempo anche donna con le sue esigenze e desideri e, quindi, di avere una vita che val al di là del suo essere madre e il figlio di essere un’entità separata e di avere una propria autonomia, una propria identità.  E’ paradossale che tutto ciò avvenga in un contesto contraddistinto dalla perdita così come in ogni lutto. E’ paradossale, infatti, che la costruzione dell’identità può avvenire solo se si riesce ad accettare e superare l’esperienza del perdersi: “Il lutto originario è dunque la prima e prolungata prova che l’io deve affrontare per scoprire l’oggetto. In virtù di un paradosso fondatore, questo è perduto prima che trovato, allo stesso modo non si trova l’io se non accettando di perdersi” (Racamier).  Eppure è un processo  antropologicamente necessario che si perpetua all’infinito poiché  uscire dalla simbiosi vuol dire acquistare consapevolezza di sé e in forza di questa nuova immagine d’identità potersi predisporre alle relazioni con gli altri. Conquistare una nuova stabilità con confini chiari apre alla possibilità di potersi legare con altri soggetti.  

A volte, però,   il lutto legato alla perdita non riesce ad essere elaborato a seguito di esperienze di abbandono e allora il mondo diventa un deserto privo di senso e di significato. E’ il caso in cui la perdita della persona che ci accudisce è vissuta come una grave minaccia alla propria esistenza, un’amputazione di una parte di sé. Spesso si accompagna alla percezione di non poter sopravvivere senza l’altro e a una visione catastrofica della vita e del mondo. Le esperienze di perdita e di abbandono nell’adulto possono rievocare antiche ferite, facendo riaffiorare costellazioni di angosce primitive, mai metabolizzate, confermando le aspettative di tradimento, inaffidabilità da parte dell’altro e un’immagine di sé come vulnerabile, destinato a essere ferito, rifiutato nei rapporti. La separazione diventa non solo perdita dell’altro ma anche perdita di sé, come persona degna di amore.  Un grande esempio lo troviamo nella Monaca di Monza all’interno dei Promessi  Sposi: costretta dai genitori a vestire l’abito talare si ribella facendo vita totalmente dissoluta.  . Il papà di Gertrude si prende cura della figlia senza riuscire a donarle l’autonomia e la costringe a una esistenza inautentica. Esistenza inautentica che troviamo anche nella Monaca di Diderot. Ancora una volta un padre che per garantire l’eredità agli altri figli costringe una figlia a scegliere la vita di convento.

 Accanto alle madri abbandoniche troviamo quelle che in apparenza sono continuamente occupate nel loro compito genitoriale. Sono le madri che abbracciano mortificamente i loro figli, che li stringono a se fino quasi a soffocarli. In psicologia è stato introdotto il concetto di madre castrante, divorante, simbiotica per dimostrare che i maschi adulti che hanno avuto cattivi rapporti con la propria madre, tendono ad avere un rapporto non soddisfacente con le donne. Le madri castranti sono iperprotettive, inibenti, ansiogene, preoccupate, simbiotiche. Esse vedono il figlio come un eterno bambino, anche se è già adulto, spesso si riferiscono a lui con vezzeggiativi tipici di una relazione infantile. Sono in genere madri che hanno bisogno che il figlio segua la loro visione del mondo e delle cose: hanno già in mente tutto il loro futuro dispiegato in un attimo, sono costantemente in ansia, anche se il figlio sta semplicemente facendo il suo mestiere di figlio, ovvero esprimere la sua turbolenza infantile, fare dispetti, disubbidire. Le sfumature possono andare dalla freddezza della madre-soldato, alla fusionalità della madre simbiotica, ma in ogni caso abbiamo a che fare con relazioni malate e castranti. La madre simbiotica, in particolare, ha bisogno del contatto fisico con il figlio, gli piace stropicciarlo, baciarlo, averlo per sé: ma un contatto così esasperato non è mai un reale istinto di donazione: è un modo per fagocitare, prendere, succhiare l’anima del figlio per farla tutta sua. L’incapacità a donare porta i figli ad instaurare relazioni non incentrate sull’amore ma solo sul soddisfacimento delle proprie esigenze narcisistiche. G. Cortesi sostiene che “se alle spalle – magari non ricordato, magari rimosso o negato, magari coperto dal mito di una madre idealizzata – c’è un accudimento materno o troppo divorante o troppo rifiutante e castrante (la carenza materna è sempre comunque espressione di una coppia genitoriale carente), quel maschio non riuscirà da adulto ad affidarsi al femminile, non saprà e – soprattutto – non potrà vivere la dolcissima avventura di tuffarsi nel magico e trasformante potere della femmina, affidandosi al suo abbraccio e penetrandone il mistero”.  

Accanto a relazioni che producono disturbi di tipo narcisistico, in letteratura sono sati descritti relazioni di tipo bordeline. Lyons-Ruth, Bronfman e Atwood (1999) hanno introdotto il concetto di “diatesi relazionale” per porre l’attenzione sugli eventi traumatici specifici occorsi nella storia della figura di accudimento con quella sui processi relazionali disregolati e non-reciproci tra genitore e figlio, caratterizzati da ostilità e impotenza.  La diatesi relazionale è correlata con l’attaccamento disorganizzato (Main e Salomon, 1986 -1990) in cui i bambini presentano un’alterata rappresentazione del sé e dell’altro che spesso comportano dei vissuti duplici e contraddittori. I bambini si sentono contemporaneamente attratti e spaventati dalla figura di attaccamento. O’Connor (1987), Radke-Yarrow (1995) e Lyons-Ruth (1996) hanno messo in risalto che questi bambini provengono da famiglie caotiche e maltrattanti, oppure con madri gravemente depresse o bipolari o alcoliste o adolescenti ed economicamente svantaggiate. E’ chiaro ed evidente che un genitore alcolista, maltrattante e abusante incute nel bambino, a causa dei suoi comportamenti, paura perché costituisce per lui una reale fonte di pericolo, ma nello stesso tempo egli si sente attratto di suoi genitori.

Main ed Hesse (1992) hanno, inoltre,  individuato una figura di attaccamento “spaventata- spaventante” che spesso si trova immersa nel suo dolore e nel suo mondo interiore a seguito di qualche esperienza dolorosa vissuta nel passato. E’ il caso di genitori che hanno traumi e lutti non risolti nel proprio passato. In ogni caso il risultato è l’emergere di  personalità di tipo bordeline.  Quest’ultime, generalmente,  seducono, mostrandosi molto amorevoli, dimostrando sentimenti esagerati che non provano, drammatizzando eventi e aspetti della loro vita al fine di manipolare chi gli si avvicina. Quando l’altra persona si lega, il borderline lo idealizza e lo fa sentire l’essere più importante del mondo; contemporaneamente gli fa il vuoto intorno, allontanando tutte le persone significative per l’altro in modo da tenerlo solo per sé, anche con la menzogna e l’inganno. La luna di miele, comunque, dura poco poiché subito dopo porta un violento attacco al legame cercando in tutti i modi di rompere la relazione. Spesso inizia a mettere in risalto i lati negativi del partner ed inizia ad attaccarlo profondamente. L’intensità dell’attacco è inversamente proporzionale alla forza con cui si sente legato all’altro. Subito dopo la tempesta però ritorna la quiete ed il soggetto bordeline tende a ritornare passionale fino al prossimo attacco di rabbia. Il motto che contraddistingue il contesto relazionale dei soggetti bordeline è “Ti odio perché mi ami” che si lega alla paura di essere abbandonati, maltratti e/o traditi. L’amore bordeline, da un lato, tenta di mettere alla prova la forza della relazione e la qualità dei sentimenti e, dall’altro, è la risultante della paura di rivivere esperienze dolorose. Rompo la relazione prima che tu mi abbandoni.

Conclusioni

Le relazioni infantili danno senso e significato al nostro essere nel mondo e con il mondo. Spesso gli studi e la letteratura classica hanno sostenuto che le prime esperienze di vita tracciano un solco, una strada che tende a plasmare la futura identità considerando  l’individuo  come un soggetto passivo totalmente appeso a braccia che possono essere,  a volte,  sostegno e,  altre volte,  gabbie da cui è difficile fuggire. Tutte le gabbie, comunque, hanno una piccola porticina da cui è possibile uscire per  svolazzare in cieli più limpidi. Sta al soggetto percorrere strade già tracciate o totalmente nuove che sicuramente comportano imprevisti che se affrontati fanno superare paure ataviche che si trascinano da una generazione ad un’altra. E’ questa la grande sfida dello sviluppo umano trovare la propria strada trovando inspirazione nei grandi navigatori del passato che da Ulisse in poi non hanno mai perso la speranza di trovare nuovi mondi e nuove realtà. Non ci è dato sapere ne scegliere in che tipo di famiglia nascere ma tutti hanno le risorse al proprio interno di costruire nuovi contesti relazionali e superare quella  linea dell’orrizzonte che spesso diventa il limite tra il conosciuto e il non conosciuto. In questo viaggio non siamo soli basta guardare all’esperienza di chi ci ha preceduto e all’intera storia dell’umanità. E’ all’interno della storia antropologica che possiamo trovare i riferimenti che ci fanno uscire dalla comodità simbiotica. Basta non lasciarsi andare al panico ma iniziare a prendere consapevolezza che l’ansia che accompagna il viaggio è necessaria e funzionale a rilanciare non solo la nostra storia ma anche quella delle future generazioni.   

 

Prof. Mariano Indelicato, Presidente PSP-Italia