La sfida dei limiti biologici: tra tecnologia e nuove patologie

A cura del Prof. Mariano Indelicato, Presidente Pronto Soccorso Psicologico-Italia

N. 4 2023 pubblicato il 05 Aprile 2023

Abstract

This work arises from the need to find an answer to a series of pathologies typical of the new generations that involve the body. Some authors even define the new pathologies as an attack on the body as a symbolic medium between the inside and the outside. The thesis of the paper is that the individual, in an attempt to overcome biological limits, does not take into account the insurmountability of the limit which leads him to challenge the imponderable. The perspective, beyond the theories of post-humanism, is that the individual accepts the challenge of the limit by recognizing the limit. The body as a border constitutes the first of the insurmountable barriers that must be recognized even in its finiteness. On the contrary, the risk lies in immersing oneself within the pathology in which the challenge to finiteness, without its recognition, can prove fatal.

Riassunto

Il presente lavoro nasce dall’esigenza di trovare risposta ad una serie di patologie tipiche delle nuove generazioni che vedono implicato il corpo. Alcuni autori addirittura definiscono le nuove patologie come un attacco al corpo come medium simbolico tra l’interno e l’esterno. La tesi del paper è che l’individuo, nel tentativo di superare i limiti biologici, non tiene conto dell’invalicabilità del limite che lo porta a sfidare l’imponderabile. La prospettiva, al di là delle teorie del post umanesimo, è che l’individuo accetti la sfida del limite riconoscendo il limite. Il corpo come confine costituisce la prima delle barriere invalicabili che devono essere riconosciute pur nella sua finitezza. Al contrario, il rischio è immergersi all’interno della patologia nella quale la sfida alla finitezza, senza il suo riconoscimento, può risultare fatale.

Sfida del biologico

Introduzione

Il termine sfida è diventato di uso comune con la comparsa delle tecnologie digitali. In esso sono contenuti le vecchie e nuove sfide con cui l’uomo si è sempre confrontato, fin dalla sua comparsa sulla terra: superare i limiti del suo essere biologico. L’antropologia, così come le teorie evoluzionistiche, racconta dei progressi che l’uomo ha raggiunto usando la ragione per potersi adattare all’ambiente esterno. Lo ha fatto per alimentarsi attraverso la costruzioni di armi, dapprima rudimentali e successivamente sempre più precise, per guarire dalle malattie, per difendersi, per comunicare, per scrivere, per elaborare calcoli, per spostarsi, etc. La ricerca tecnologica ha quindi origini antiche e, da sempre, è servita a superare i limiti imposti dal corpo che, malgrado abbia ampie possibilità, resta pur sempre limitato, ed in esso l’uomo si sente in parte imprigionato.

Il dibattito all’interno della cultura occidentale è da sempre stato incentrato su una contrapposizione molto forte ovvero se lo sviluppo debba procedere senza nessun tipo di limite o se, al contrario, esiste una invalicabilità che non deve essere mai superata.

Dal punto di vista mitico la suddetta contrapposizione trova riscontro nella figura di Prometeo il quale, da un lato, salva gli uomini donandogli il fuoco -il logos- e, dall’altro, sfida il sacro rubando il fuoco agli dei, e per tale motivo viene severamente punito. Allo stesso modo Il popolo ebraico costruisce la torre di babele, nel tentativo di raggiungere il cielo, la quale crolla poiché Dio punisce la superbia degli uomini. E ancora, Icaro, non ascoltando il padre, si avvicina troppo al sole bruciando le ali che suo padre gli aveva costruito per scappare dal labirinto.

Ciò che il mito denuncia è l’incapacità di accettare l’esistenza di confini che non possono essere superati, pena la perdita della propria umanità” (Grion, 2021).

E’ dalla contrapposizione tra limite e invalicabilità del limite che nascono, negli ultimi anni, due movimenti culturali, in apparenza contradditori, che hanno come loro centro di attenzione il corpo: il post umanesimo e il neorealismo.

Pepperell (1995) fa risalire l’era post umana al momento in cui l’uomo ha scoperto che stava cambiando sè stesso tramite la convergenza tra biologia e tecnologia così da non riuscire più a distinguere tra i due. Liao e alt. (2012), fanno rilevare che tra le tecnologie più rilevanti, soprattutto per quanto riguarda l’impatto sull’essere umano, vi sono le cosiddette biotecnologie e l’ingegneria genetica che, allo stato attuale delle cose, sembrano aver abbastanza vigore da poter cambiare radicalmente le caratteristiche dell’uomo e mettere così in discussione la sua natura.

E’ da queste ricerche che il post umanesimo prende linfa per cercare di superare uno dei più gradi limiti dell’uomo, ovvero la sua finitezza. Non è un caso che due autori di punta di questo movimento come Kurtzweil (2005) e Aubrey De Grey (2005), attraverso il concetto di trasumanesimo, sostengono che grazie agli impetuosi sviluppi tecnologici l’uomo stia per sganciarsi completamente dalla traiettoria dell’evoluzione naturale per accedere appieno a quella dell’evoluzione auto diretta. Per i transumanisti il limite dell’uomo è il corpo che invecchia ed è portatore di malattie tanto da far dire a Lo Sapio (2018) che “Come per Platone il corpo veniva concepito quale pastoia rispetto alla piena realizzazione delle potenzialità dell’uomo, così per i transumanisti il corpo è l’involucro inessenziale da superare”. Per i post umanisti, infatti, l’uomo cosi come lo abbiamo conosciuto è morto e solo la tecnologia potrà dargli la necessaria evoluzione. Oltre alla biotecnologia, l’ulteriore frontiera è rappresentata dala realtà aumentata e da quella virtuale, in grado di superare i limiti corporei e proiettarci all’interno di un mondo senza luogo e senza tempo.

Il neorealismo che si snoda, soprattutto, attraverso, movimenti artistici come Abject Art, Posthuman Art o arte postorganica in cui “il corpo si mostra in toto o in parte come ferito, malato, trafitto, smembrato, degradato, imbrattato, umiliato ma, allo stesso tempo, anche come ibridato, potenziato, aumentato, sublimato, offrendosi come una potentissima pratica significante dell’esperienza vissuta, e come medium privilegiato di indagine estetica e formale” (Patella, 2016).

E’ in quest’ambito che assume significato il termine abiezione, coniato nel 1980 dalla psicoanalista francese Kristeva. Con tale termine si intende lo stato di repulsione e di rifiuto che colpisce l’Io quando si trova a contatto con qualcosa che gli si oppone e lo minaccia. Si tratta del fenomeno dell’allontanare, del gettare via tutti gli elementi potenzialmente pericolosi, indesiderati e fastidiosi della vita. L’abiezione ruoterebbe intorno ai concetti di limite/illimitato e interno/esterno; essa sarebbe così alla base della differenziazione fondamentale tra l’Io e l’altro, tra il sé e il non sé. L’abiezione si trova a che fare con il limite, con ciò che mi delimita, ciò che determina la mia identità; l’abietto e l’abiezione, scrive Kristeva, “sono il mio recinto“.

E’ attorno a questi concetti che nel presente lavoro analizzeremo la formazione del Se’ e, in particolar modo, le patologie che ad essi si ispirano. Il corpo è diventato il centro d’interesse delle ultime generazioni e ad esso si riferiscono tante patologie che affrontiamo ogni giorno all’interno delle stanze di terapia. L’accettazione del limite, della finitezza dell’essere umano costituisce la presa di coscienza che permette di sfuggire a suggestioni fantastiche e, tante volte, fantasmagoriche.

Latouche (2007), in relazione ai limiti dell’individuo, sintetizza abbastanza bene l’illusione che le nuove generazioni stanno vivendo: “dove andiamo? Dritti contro un muro. Siamo a bordo di un bolide senza pilota, senza marcia indietro e senza freni, che sta andando a fracassarsi contro i limiti del pianeta”.

L’attacco al corpo

Il corpo, in senso antropologico, “si pone nel contempo come uno dei vettori della socialità e delle relazioni con l’altro, come oggetto e supporto delle pratiche terapeutiche, rituali e simboliche, come l’ancoraggio principale delle logiche del sensibile e delle forme di relazione semiotica con il mondo circostante che caratterizzano ogni singola cultura” (Fontanille, 2004). Il corpo, infatti, non solo rappresenta plasticamente le concezioni culturali e sociali ma, nello stesso tempo, nelle sue forme sintomatologiche, diventa il principale canale di espressione del disagio emotivo.

Attualmente esso è al centro dell’attenzione ossessiva degli adolescenti, i quali manifestano il loro malessere attraverso sintomi che vanno dall’autolesionismo, ai disturbi alimentari, al consumo di sostanze d’abuso, sino ai gravi attentati alla vita (tentati e mancati suicidi), a cui si affiancano disturbi di panico e d’ansia acuti, stati fobici con marcato ritiro sociale, stati dissociativi con alterazioni senso-percettive, crisi di dirompenza spesso intrafamiliare (Lo Parrino et, alt. 2021). In sostanza vi è un vero è proprio attacco al corpo che viene vissuto come una prigione da cui sfuggire appunto per la sua limitatezza. Le droghe così come l’alcool fanno sentire forti e potenti e permettono di vivere sensazioni e stati fuori dall’ordinario. Consentono di volare restando comodamente seduti, attraverso di esse si raggiungono prestazioni che nell’ordinario non è possibile avere. Rompono la connessione di mente e corpo: il godimento del desiderio, spezzando il circolo della razionalità, non è più sottoposto alla legge. La “mente” nelle sue espressioni deve tenere conto dei limiti del biologico; se si libera del corpo può raggiungere traguardi altrimenti irraggiungibili. E’ l’assenza della legge che permette al desiderio di potersi esprimere senza limiti. E’ nell’assenza della legge che il corpo perde valore, ad esempio, attraverso rapporti sessuali “mordi e fuggi” senza nessuna implicazione di ordine emotivo: non si incontrano due soggetti ma due corpi. Viene meno l’alterità che qualsiasi relazione e, in particolar modo, il rapporto sessuale dovrebbe avere. Allo stesso modo, al pari della droga, l’alcool rompe i tabù, le ansie e le paure che spesso accompagnano la vita ordinaria. Anch’esso serve a superare i rigidi limiti sia di ordine corporeo che mentale.

L’autolesionismo esprime il disgusto per un corpo in cui il soggetto non si riconosce per mettersi in contatto con l’interno, con ciò che non si vede, con ciò che non si riesce a raggiungere. Gina Pane, esponente della performance art e della body art, nelle sue opere dà voce alla sofferenza che viene dal corpo: “nel mio lavoro il dolore era quasi il messaggio stesso… La sofferenza fisica diventa un problema di linguaggio… Il corpo diventa l’idea stessa, mentre prima era solo un trasmettitore di idea”. In sostanza, de-simbolizza il corpo come ponte con la mente, riducendolo a sola carne che è possibile tagliare e far sanguinare. E’ nel sangue che sgorga che l’interno supera il confine, i limiti del corpo per potersi manifestare. Se si toglie l’argine l’acqua scorre in maniera tumultuosa travolgendo tutto ciò che incontra lungo il suo cammino. Ogni singola goccia di sangue è un’istanza inconscia che non trova altro modo di uscire. Ritorna il concetto di abiezione così come descritto all’inizio di questo articolo. Il corpo diventa l’abietto che provoca disgusto al pari dei suoi prodotti come gli escrementi, l’urina, il sangue, etc. che si oppone all’uscita del vero sé. Per la Kristeva (op.cit), Il luogo dell’abietto è là “dove il senso sprofonda”. Non è un caso che il massimo grado di autolesionismo sia il suicidio, altro importante fenomeno che si sta sempre più imponendo tra gli adolescenti. Infatti, l’abietto per eccellenza è il cadavere: “è il colmo dell’abiezione. È la morte che infesta la vita. Abietto. È un rigetto da cui non ci si separa, da cui non ci si protegge come si farebbe con un oggetto. Estraneità immaginaria e minaccia reale, ci chiamano e finiscono con l’inghiottirci”. Per dirla in termini freudiani è il trionfo della pulsione di morte che sfida la finitezza dell’uomo. Da questo punto di vista il cadavere è esattamente ciò che si aggira intorno alla dissoluzione dei limiti, alla rottura della distinzione fra dentro e fuori, tra l’interno fluido, umido, sformato e l’esterno rigido, duro, formato dell’organismo. Non è un caso che l’arte abietta, concentrandosi su corpi feriti, aperti, spezzati, traumatizzati, insista sull’esposizione dell’interno del corpo, sulla ferita che, squarciando l’integrità delimitata del corpo, la superficie levigata della pelle, lascia affiorare all’esterno fluidi corporei come sangue, pus, umori (Patella, 2016). Non è un caso che Gina Pane, come tanti altri autolesionisti, fa osservare ai suoi personaggi con grande freddezza sgorgare il sangue dalle ferite che si sono auto inferti. L’abiezione si muove del resto proprio sui territori intermedi dell’indistinzione, sul margine ambiguo dei confini, puntando a travolgere ciò che è chiuso e determinato. Come scrive ancora la Kristeva, “non è l’assenza di pulizia o di salute a rendere abietto ma quel che turba un’identità, un sistema, un ordine. Quel che non rispetta i limiti, i posti, le regole”. E’ l’assenza della legge che crea un vuoto che non permette, da un lato, la nascita del desiderio e, dall’altro, la sua non espressione. E’ nel vuoto, nell’assenza che l’uomo può sfidare la sua finitezza in quanto già finito. Senza desiderio non esiste vita è tutto diventa un deserto arido incapace di produrre frutti: è il terreno per nuove sfide e ricerca di nuovi limiti. Se il corpo diventa incapace di esprimere i contrasti e i conflitti interni e diventa esso stesso la fonte dei disagi, allora è attraverso di esso che bisogna esprimere il dolore.

L’attacco, la sfida al corpo trova riscontro anche nei disturbi alimentari: un corpo che imprigiona ciò che vorrei essere e non sono. Un corpo da riempire o svuotare e/o riempire e svuotare. Un corpo non in grado di proteggermi e non in grado di creare il giusto confine tra me e l’altro. Ecco allora emergere il “non corpo” che, in quanto tale, è frutto di un investimento illusorio senza nessun contatto con la realtà. Non è un caso che l’anoressia, ad esempio, venga annoverata tra i sintomi di tipo psicotico proprio per il vissuto allucinatorio del corpo. Eppure dentro l’anoressia c’è di più, ovvero la sfida ai limiti della sopravvivenza, la sfida alla motivazione alla sopravvivenza. Freud identifica in Thanatos la forza distruttrice che, se non contrastata da Eros -la pulsione di vita-, conduce verso la morte. L’amore prevede il sacrificio per l’altro e la sua cura, e la sua forza sta nell’accettazione della legge disinvestendo alla meta. Al contrario, Thanatos tende al godimento del desiderio senza tenere conto della legge, e in assenza della legge. La presenza della legge indica i limiti invalicabili per il godimento al desiderio. Al contrario, Thanatos, non prevedendo la presenza della legge, non si pone limiti arrivando all’annullamento dello stesso soggetto.

Conclusioni

Ihab Hassan, parlando del post modernismo, scrive che “bisogna chiudere con il forte desiderio di dis-fare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell’ individuo, l’ intero territorio del dibattito occidentale”. Il dis-fare non è semplicemente il frutto di azioni intenzionali ma, come trattato ampiamente, anche dall’assenza di regole, della legge che pone i limiti entro cui il desiderio possa trovare il suo godimento.

E’ nel non riconoscere l’esistenza di limiti come quelli biologici che la patologia trova terreno fertile su cui potersi sviluppare.

Non vi è dubbio che il clima culturale è il frutto della determinazione allo sviluppo che, senza tenere conto dei limiti fisici e biologici, porta verso il dissolvimento. Non possiamo condurre un’automobile ad alta velocità senza tenere conto dello spazio di frenata e della presenza di eventuali ostacoli lungo il percorso. La fiducia cieca verso il progresso e le nuove tecnologie ha fatto erroneamente credere che tutto è possibile, lasciando di fatto gli individui a combattere una guerra da soli.

Solo l’accettazione e la presenza di limiti invalicabili permettono di mettersi in relazione con l’Altro. Lo sviluppo dell’individuo nasce dal bisogno di riconoscere l’altro e, nel contempo, di farsi riconoscere. E’ questo il primo limite invalicabile che il bambino appena nato si trova ad affrontare: il bisogno dell’alterità. Man mano nel corso dello sviluppo e nelle varie fasi dello sviluppo questo bisogno diventa talmente impellente che la ricerca dell’altro, ad esempio, serve alla stessa riproduzione della specie. Per quanto la tecnologia possa immaginare futuri innesti per fare un figlio c’è bisogno di almeno due persone di sesso diverso. Questo è uno dei limiti insuperabili anche volendo immergersi all’interno della fantascienza. E, inoltre, per fare un figlio, come ci ricorda il talmud, c’è bisogno di almeno tre generazioni quella dei nonni, dei padri e dei figli. Questo è un altro limite invalicabile di cui prendere consapevolezza. Il corpo come medium simbolico tra l’interno e l’esterno è un altro dei limiti invalicabili di cui prendere coscienza, al di là delle esperienze di realtà aumentata e virtuale. Anche perché, in quest’ultima, proiettiamo semplicemente il nostro corpo all’interno di luoghi e tempi diversi.

Tutto ciò a significare che i limiti possono essere superati solo nella misura in cui prendiamo coscienza dell’invalicabilità del limite. Questa è la più grande delle conquiste che sicuramente può farci sentire padroni di noi stessi.

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Bibliografia

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Liao, S. M., Sandberg, A., Roache, R. (2012): Human engineering and climate change, «Ethics, Policy & Environment», vol. 15/2, pp. 206-221.

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Pepperell, R., (1995), The post human condition, Intellect, Bristol Portland

Prof. Mariano Indelicato, Presidente PSP-Italia