A cura della Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica, Responsabile Settore Comunicazione PSP-Italia
“Quando il giardino della mente inizia a inaridire, si dovrebbero accudire le ultime rose con un affetto ancora maggiore ” (Orhan Pamuk)
Invecchiare è un “processo biologico naturale“ che interessa ogni soggetto e dal quale non si può scappare!
Ciò non costituisce di per sé una condizione di malattia; ma accanto all’invecchiamentofisiologico tuttavia non si può non considerare la presenza, in alcuni casi, di processi patologici di invecchiamento. Questo accade quando il declino delle funzioni cognitive è marcato e tale da compromettere il buon funzionamento psicologico e sociale della persona, come nei casi di demenza.
L’ineluttabilità della vecchiaia sta quindi nel non poter bloccare in alcun modo questo processo; ma in un’ottica più generale di “qualità della vita” e di “prevenzione” è possibile ridurre i rischi e i disagi correlati a questo inevitabile evento.
A questo proposito, ormai da tempo, è diventato estremamente importante approfondire la ricerca e la clinica al fine di comprendere cosa favorisca un “invecchiamento positivo”soprattutto a livello cognitivo, e come sia possibile mantenere il più a lungo possibile attività e funzioni fondamentali alla persona, soprattutto per continuare a vivere in autonomia.
Sebbene il deterioramento cognitivo, soprattutto in presenza di stati patologici, sia un processo “progressivo” e quasi sempre “irreversibile”, si è visto che il suo decorso si può manifestare secondo modalità differenti a seconda dei casi, e che soggetti più stimolati e maggiormente coinvolti socialmente possono avere un declino più lento.
Uno “stile di vita positivo” caratterizzato da scambi ed interazioni sociali, hobbies, passioni intellettuali, esercizio fisico, rientra infatti nei cosiddetti “fattori di protezione” che possono rallentare il decadimento e mantenere attive alcune funzioni che, in assenza di un continuo esercizio tenderebbero (sia naturalmente, che in maniera più drastica in presenza di condizioni patologiche) a deteriorarsi e decadere, ad “atrofizzarsi” sempre più in base al principio, ampiamente dimostrato e scientificamente validato, secondo cui “si perde ciò che non si usa, e si conserva ciò che viene mantenuto attivo mediante continuo esercizio”.
É in virtù di ciò che vi è la possibilità di poter intraprendere dei percorsi di “stimolazione cognitiva” intesi come interventi strategicamente orientati al “benessere complessivo” della persona, in modo da incrementarne il coinvolgimento in compiti finalizzati al mantenimento delle “competenze residue”, e al rallentamento della perdita funzionale soprattutto in condizioni di patologia.
In questo senso la stimolazione cognitiva identifica un intervento non farmacologico che produce degli effetti positivi non solo sulla sfera cognitiva, ma anche su quella affettiva, comportamentale e relazionale del soggetto, utilizzando tecniche differenti a seconda del contesto e dell’individuo stesso, e stimolando un processo di resistenza ed adattamento: l’obiettivo è il mantenimento o il raggiungimento del miglior livello di funzionalità psicologica e sociale possibile, che possa garantire una “buona qualità di vita” ed uno “stato generale di benessere” per il soggetto che vi si sottopone.
Diversi studi hanno dimostrato benefici maggiori quando il trattamento farmacologico viene “associato” ad un trattamento neuropsicologico e/o psicosociale.
Lo stesso Piano Nazionale Demenze del 2016 (DGR 990) indica gli interventi di stimolazione cognitiva come “trattamenti non farmacologici e di tipo psicosociale, dove lo scopo principale dei percorsi è quello di favorire il coping e l’adattamento della persona alla sua condizione”.
Un’ampia letteratura scientifica è presente anche a conferma delle evidenze di efficacia nel miglioramento della qualità di vita dei soggetti affetti da deterioramento cognitivo sottoposti a “programma di stimolazione cognitiva”, soprattutto nelle fasi iniziali di stati patologici già accertati (malattia di Alzheimer) o semplicemente in stadi prodromici, tra i quali l’MCI (Fagherazzi et al, 2009; Buschert et al., 2010).
É possibile parlare di lavoro di “mantenimento di competenze residue” in quanto l’applicazione di procedure di riabilitazione cognitiva si basa sul fatto che il deficit di demenza ha un “carattere modulare”: a fronte di abilità cognitive deficitarie ve ne sono altre che appaiono ancora “conservate”.
Il lavoro di stimolazione permette dunque di esercitare le abilità cognitive che il deterioramento al momento ha risparmiato, con lo scopo di contrastare il processo di declino mediante l’attivazione di “meccanismi di compensazione”.
Questo importante concetto, oltre che a livello funzionale, è valido anche a “livello strutturale” e per comprendere meglio cosa ciò voglia dire, bisogna fare riferimento alla concezione che le Neuroscienze hanno del cervello e del sistema nervoso umano, differenziandone una visione classica da una visione più moderna ed attuale:
mentre le Neuroscienze classiche consideravano il cervello un organo statico che, alla fine dell’età dello sviluppo, diventava una struttura rigida ed immodificabile,
le Neuroscienze moderne, grazie alle inarrestabili ricerche in questo campo, sono arrivate a scoprire la straordinaria possibilità di modificazioni a livello neuro-strutturale anche in età adulta: la cosiddetta “plasticità cerebrale”.
“Il cervello rappresenta dunque una struttura infinitamente modificabile e perfezionabile, essendo in grado di riconfigurarsi a qualsiasi età in relazione a condizioni sempre diverse”.
Nel caso specifico dell’invecchiamento, il cervello rappresenta una struttura in grado di “attivarsi per riparare gli stati deficitari” (effetto neuro-protettivo), indipendentemente dal fatto che siano stati determinati da condizioni di deterioramento cognitivo fisiologico, o da eventi di carattere patologico.
La “plasticità” si verifica grazie ad una graduale riattivazione funzionale di vie nervose secondarie, ampiamente diffuse nei sistemi nervosi adulti; il cervello é infatti dotato di una sorta di “riserva cognitiva” costituita dal numero di cellule presenti nel sistema nervoso e dalla quantità dei percorsi che le connettono.
A partire da ciò, mantenere cognitivamente impegnate le persone affette da deterioramento cognitivo facilita l’attivazione di questa sorta di riserva cerebrale: “in risposta a una lesione o a una perdita fisiologica di materiale neuronale sarebbe dunque possibile il recupero di alcuni collegamenti inibiti, tramite esperienze di stimolazione sistematica” (Cesa-Bianchi, 1999).
Per poter dare avvio al percorso di stimolazione cognitiva più idoneo ad un determinato soggetto, appare indispensabile poter partire dal suo “profilo cognitivo”, ossia dalla conoscenza del livello di compromissione delle sue capacità cognitive e delle sue abilità residue. Nello specifico, le funzioni cognitive possono essere misurate attraverso la somministrazione di “test psicometrici” che valutano selettivamente le varie capacità (memoria, attenzione, denominazione, ripetizione, orientamento..).
A questo proposito l’equipe del Pronto Soccorso Psicologico-Italia ha al suo interno degli operatori esperti di Neuropsicologia, in grado di poter intraprendere il giusto “lavoro psicodiagnostico” che rappresenta il presupposto fondamentale dal quale partire per poter predisporre un adeguato intervento terapeutico: tramite la raccolta della storia di vita del soggetto, il colloquio osservazionale, le informazioni ricevute dai familiari di riferimento e, soprattutto, i risultati dei test psicometrici, si potrá essere in grado di pianificare e programmare interventi personalizzati e specifici, in modo da promuovere l’utilizzo delle capacità ancora sufficientemente conservate.
Una formazione specifica è richiesta anche per la messa in atto delle tecniche di stimolazione cognitiva, che devono essere altamente strutturate e non confuse con semplici proposte ludico-ricreative. A questo proposito il Pronto Soccorso Psicologico-Italia continua a mostrarsi propenso al “lavoro di rete”, in collaborazione con figure specializzate in ambiti più specifici (in questo caso, psicologi esperti in riabilitazione cognitiva).
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