A cura del Prof. Mariano Indelicato, Presidente Pronto Soccorso Psicologico-Italia
N. 2 2023 pubblicato il 08.02.2023
Abstract
Adoption is part of the eternal debate between biological and cultural heritage that has always characterized developmental psychology. Indeed, within the adoptive process, the “adoptive triad” is involved, the biological parents, the adoptive parents, and the adoptee.
The necessary integration of the various family and generational histories contributes to the construction of the Self and the success of the adoption.
Being a parent is part of complex cultural processes that find meaning within the paths, myths, symbols, and rituals preserved within the generational passages. The task of the adoptive parents is to insert the pre-adoption family history into their own to be able to incorporate diversity. Only in this way can they be able to continue the story of their lineage
Riassunto
L’Adozione si inserisce nell’eterno dibattito tra eredità biologica e culturale che ha contraddistinto da sempre la psicologia dello sviluppo. All’interno del processo adottivo viene implicata, infatti, la “triade adottiva” ovvero i genitori biologici, quelli adottivi e l’adottato.
La necessaria integrazione delle varie storie familiari e generazionali contribuisce alla costruzione del Sé e alla buona riuscita dell’adozione.
Essere genitori si inserisce all’interno di complessi processi culturali che trovano significazione all’interno di percorsi, miti, simboli e rituali conservati all’interno dei passaggi generazionali. Compito dei genitori adottivi è inserire la storia familiare pre adozione all’interno della propria in modo da poter incorporare la diversità. Solo in questo modo possono riuscire a continuare la storia della propria stirpe.
L’Adozione, il processo adottivo pone le famiglie di fronte all’eterno dilemma tra le caratteristiche biologiche e quelle culturali, dove per le prime, nello specifico, si intendono i legami di sangue e di latte e di passione mentre, per le seconde, tutto ciò che viene regolato dalle norme e dalle leggi sociali. In effetti, come sostiene Vadilonga (2020) “l’adozione rimanda all’importanza e alla complessità di un passaggio di consegne da chi non ce la fa a esercitare la genitorialità a chi, invece, aspira a una responsabilità così profondamente umana come amare e crescere un figlio”.
Se generare un figlio è, a prima vista e all’apparenza, un processo del tutto naturale che può essere iscritto all’interno dei meccanismi di tipo biologico, adottare un bambino, invece, è frutto di una “relazione triadica” che vede coinvolti la famiglia biologica, la famiglia adottante, e il bambino adottato, oltre allo stato e alle norme sociali che riconoscono e affermano la giustizia e la legittimità dell’atto adottivo.
Essere genitori, diventare genitori rimanda ai complessi processi antropologici sul dare la vita, donare la vita e se questo atto sia esclusivamente biologico o culturale, perché se è vero che la vita nasce all’interno del biologico è pur vero che essa assume forme e contenuti all’interno della cultura. Per dirla con Sartre (1943), Gould (1978) e Rose (1983), partendo dalla considerazione che il biologico è incompleto, l’individuo deve costruire la sua umanità.
Nell’ambito della Psicologia dello sviluppo ciò vuol dire che dall’atto della fecondazione inizia il “processo di trasformazione del biologico in culturale” che trova i suoi significati nella cultura che, a sua volta, è il contenitore dei significati che si sono sviluppati sul piano antropologico. In tal modo, l’atto generativo, il dare la vita, trova i suoi fondamenti nel “triangolo sacro dei legami” ovvero: donare, ricevere e ricambiare. Impegnarsi nella generatività è il ricambiare il dono della vita ricevuto dai propri genitori, meccanismo che permette la continuazione della specie e, quindi assume, nello stesso tempo, contenuti antropologici e filogenetici. Il figlio/a si sente vincolato a ridare la vita come contraccambio all’aver ricevuto il dono della vita.
L’adozione quindi, al pari della generatività biologica, si iscrive nel registro dei debiti positivi e negativi che la coppia genitoriale assume nei confronti delle generazioni precedenti. L’atto generativo, infatti, ricambia il dono della vita che si è ricevuto all’atto della nascita. “La vita si dona nella speranza e nella fiducia di poter essere ricambiati con il dono della vita”. Tra l’altro attraverso il dono si trasmettono il nome e l’eredità di beni e di status, che permettono la continuazione della stirpe familiare.
L’adozione, seppure nasca da un’angoscia primitiva legata alla sterilità o infertilità, serve per “avere discendenza, conservare il nome, allontanando lo spettro dell’oblio e l’angoscia derivante dall’estinzione e dalla dispersione del patrimonio familiare” (Cigoli, 2007). L’estinzione, inoltre, senza l’adozione, comporterebbe l’angoscia di dover morire senza essere ricordati: la vita non finisce se continua nel ricordo di altri.
E’ questo il grande lutto legato alla sterilità e/o infertilità che le famiglie adottive devono elaborare nel corso delle varie fasi del processo adottivo, al fine di non far assumere al figlio missioni salvifiche. Se non interviene l’elaborazione della sterilità, nel lutto e nella perdita del figlio non nato, la scelta adottiva sarà rigidamente imperniata sul bisogno di un figlio negato dal dato di realtà.
L’elaborazione della sterilità permette di passare dal bisogno di un figlio al “desiderio di un bambino generato da altri” (Guidi, Masi, Tosi, 1994 – 1996) . L’adozione fonda le sue radici in una doppia mancanza: la mancanza della realizzazione del bisogno di filiazione e discendenza della coppia, e la mancanza di una famiglia per il bambino. Se entrambe le mancanze sono elaborate e incanalate entro un comune impegno generativo, il patto ha successo.
Secondo Godbout (1996) all’origine del legame adottivo vi è la reciprocità della scelta adottiva che si manifesta nello scambio di doni. I genitori offrono cura, protezione e famiglia al bambino, e questi dona alla coppia la genitorialità. In alcuni casi di adozione, i genitori non colgono la reciprocità dello scambio, il legame è ipotecato fin dall’inizio poiché si percepiscono come coloro che hanno salvato il figlio, e questi non può che essere imprigionato nella posizione di debitore. Al contrario, sempre secondo Godbout, “Il dono al figlio è forse la forma più specifica del dono moderno e il debito contratto il più difficile da assumere. Il figlio è la sola persona cui la società moderna permette di dare senza contare. Ogni decisione di questo tipo trasmette al bambino un messaggio che definisce i valori che contano”.
Per tale motivo i genitori adottivi debbono rinegoziare il loro patto coniugale che non si fonda più sul bisogno e la necessità di diventare genitori, ma su una “scelta di tipo affettivo”. In questo modo la pratica adottiva riempie una doppia mancanza: quella dei genitori che non hanno potuto generare, e quella dei figli per l’abbandono subito. La costruzione del legame adottivo, infatti, passa attraverso processi di imitazione e, come quello che si stabilisce nelle famiglie biologiche , si delinea come un processo che si snoda nel tempo, una transizione, e come tale chiede alla famiglia di modificare i pattern relazionali preesistenti sia a livello coniugale che intergenerazionale. “L’obiettivo della transizione è il patto adottivo: un incastro di bisogni di due generazioni che dà luogo a un progetto- impegno generativo” (Scabini E., Cigoli V., op. cit.).
Così come le famiglie biologiche, le famiglie adottive hanno un loro particolare ciclo di vita suddiviso in due fasi:
1. la fase generativa contraddistinta dal momento in cui la coppia prende coscienza della propria sterilità e deve passare da una generatività biologica ad una adottiva. Durante questa fase la coppia deve assolvere ad una serie di compiti:
a) Elaborare la sterilità
b) Progettare il diventare genitori adottivi
c) Comunicarlo al resto dei familiari
d) Accettare l’attesa dell’incontro adottivo
e) Creare uno spazio emotivo per accogliere il bambino
2. la fase della formazione che segna il passaggio dalla diade coniugale alla triade familiare. I compiti di questa fase sono:
a) costruire la genitorialità adottiva
b) legare tra di loro le generazioni inserendo nella famiglia un’origine diversa
c) sostenere il figlio nel suo inserimento sociale
E’ durante la prima fase che avviene l’incontro tra genitori e figlio adottivo, e si congela tutto ciò che è stato prima. Alcuni autori chiamano questa fase “luna di miele” per enfatizzare gli aspetti di idealizzazione e mistificazione. La prima fase con tutti i suoi processi è importante perché come dimostrato da Kaniuk et al. (2004), in una loro ricerca sulle relazioni di attaccamento, le madri adottive con uno stato della mente “irrisolto” hanno bambini che mostrano maggiore aggressività nel completamento di storie. Cavanna (2003) mette in risalto che nel caso di genitori “portatori di elementi poco elaborati della propria storia infantile (per esempio lutti o abusi), o che devono affrontare problemi dolorosi della loro vita adulta (per esempio sterilità/infertilità), possono crearsi situazioni familiari altamente conflittuali e stressanti che possono esitare addirittura nel fallimento adottivo, ovvero nell’allontanamento del minore dalla famiglia da cui è stato adottato”.
E’ la concezione del “Prendersi cura di…” che crea le difficoltà relazionali. Prendersi cura, infatti, come riportato dal Collegio Universitario di Villalta, non ha un significato univoco: prendersi cura di una persona non è come il curare un animale o una pianta. Prendersi cura di una persona significa riconoscerlo nella sua alterità: nell’essere altro da me e, quindi, portatore di valori, sentimenti ed emozioni sue proprie, in sostanza, riconoscere l’autonomia dell’altro. Questo presupposto è più che mai valido nel caso di bambini adottati perché significa riconoscere che essi sono portatori di una storia precedente all’adozione. In questa fase, invece, l’atteggiamento tipico delle famiglie adottive le quali tendono a riparare alla ferita biologica di non aver potuto avere figli attraverso una iper-permimissività ed un concedersi totalmente al figlio adottato.
Essi tendono a considerare l’adozione come la “risorsa delle risorse” (Maioli Sanese, 1998) poichè cercano di riparare i traumi e le ferite che i bambini adottati hanno subito nella loro famiglia originaria: come se i traumi, gli abusi subiti e l’istituzionalizzazione dovrebbero avere la possibilità di essere curati dal legame adottivo stesso (Scabini, 2001). Tutto ciò si traduce, in un iperpermissivismo e un concedersi totalmente al figlio adottato attuando, come ci ricordano Boszormenyi-Nagi e Spark (1973), nel far rilevare che le relazioni devono essere contraddistinte da equità e reciprocità, atteggiamenti difensivi: “importante capire l’implicazione del ruolo del figlio quale inconsapevole sfruttatore potenziale di un genitore, dato che il figlio ha diritto a ricevere in cambio di niente. Molti genitori sentono che non è loro permesso lamentarsi della sensazione di essere sfruttati, e inconsapevolmente coprono questa sensazione con iperprotettività, un’iperpermessività, una devozione da martire e altri atteggiamenti difensivi”. Se questo è vero nelle famiglie biologiche lo è ancora di più in quelle adottive, poiché sono impegnate a dimostrare e dimostrarsi di essere degli ottimi genitori, quasi a voler riparare la ferita narcisistica dell’infertilità e/o della sterilità, creando un circolo vizioso fra il bisogno di conferme per la propria immagine di genitori adottivi “buoni e capaci” e la proiezione sulle inadeguatezze “strutturali e genetiche” di un bambino non loro, che può portare a comportamenti di rifiuto ed espulsione (Cancrini, 2013).
E’ nella fase adolescenziale che viene fisiologicamente messo in discussione il legame con le figure genitoriali, sia nelle famiglie biologiche sia in quelle adottive, e si assiste alla rivisitazione dei legami da una prospettiva “altra” rispetto a quella dell’infanzia, dove il nucleo centrale riguarda la separazione e la giusta distanza da trovare. Nelle storie di adozione questo rappresenta un nodo importante, nella misura in cui il separarsi può riportare in superficie angosce abbandoniche non risolte e difficoltà legate al processo di riconoscimento e appartenenza, per il ragazzo, di mancata elaborazione del lutto dell’infertilità/sterilità e di aspettative, per i genitori. Il quesito che si pone è quanto nei comportamenti del figlio è riferibile al suo passato e quanto alle problematiche legate al processo adottivo.
Scabini (1995), infatti, sostiene che durante il processo di “differenziazione del sé di una persona” (Bowen,1980), sono coinvolti sia l’adolescente sia la famiglia in una sorta di “impresa evolutiva congiunta”. Cancrini (op.cit), a questo proposito, sottolinea come spesso le famiglie adottive siano vittime di un perverso gioco di identificazione proiettiva che non permette loro di impegnarsi nell’elaborazione delle loro sofferenze passate e, contemporaneamente, nel processo di separazione e individuazione durante l’adolescenza. E’ in questa fase che “l’adolescente, nel tessere e costruire la sua identità, si trova a fare i conti anche con la storia delle sue origini e decidere di essere figlio di quei genitori” (Andolfi, 2013).
In fondo non è diverso da quello che accade ai figli naturali che durante l’adolescenza si ritrovano a rielaborare le loro origini poiché è durante l’adolescenza che si accende la sfida tra continuità e cambiamento, nell’accettazione o meno del sistema valoriale trasmesso dai genitori e dalle generazioni precedenti. E’ in questa fase che l’individuo, per essere riconosciuto come sistema portatore di valori, deve rielaborare i contenuti provenienti dall’intergenerazionalità e dal transgenerazionale. Ciò che viene scambiato sono valori affettivi ed etici, connessi alle passioni umane, in cui “l’intergenerazionaleè il visibile dello scambio nei suoi schemi e nelle loro caratteristiche, mentre il transgenerazionale è ciò che attende di essere riconosciuto come incontro\scontro tra valori e passioni” (Cigoli, 2012).
E’ durante l’adolescenza, fase in cui i temi della similarità e della differenziazione tra genitori e figli diventano fondamentali, che il passaggio del patrimonio valoriale assume rilevanza (Feinberg, Howe, Reiss e Hetherington, 2000). Passaggio che non vede i figli come soggetti passivi, ma come attori che scelgono e rielaborano le proprie radici accettando o rifiutando ciò che viene dalle generazioni precedenti. Grusec e Goodnow (1994 – 2000) hanno elaborato un modello bidirezionale, “Two-step model of value acquisition”, in cui la trasmissione valoriale contempla due step:
1. la percezione, da parte del figlio/a, dei valori di socializzazione genitoriali (socialization values), ossia dei valori che il genitore vorrebbe trasmettergli/le;
2. l’accettazione (o il rifiuto), da parte del figlio/a stesso/a, di quanto percepito.
E’ in questo che la fase adolescenziale assume le caratteristiche del viaggio iniziatico in cui l’individuo, in quanto essere culturale, deve essere inserito all’interno della cultura. Infatti, essa si svolge all’interno di un contesto in cui il riconoscersi, la costruzione o la percezione dell’identità, l’appartenere sono da riferire al luogo dell’altro, che è uno spazio simbolico determinato dal sistema culturale inteso come il processo attraverso il quale un individuo apprende ed elabora i valori, i simboli, i temi, le arti, le scienze di un determinato contesto. In sostanza, “se… esiste un vincolo generativo, nel senso che non ci è dato scegliere dove, quando, in che vicenda familiare e di che genere nascere …esiste anche un vincolo a decidere che fare della propria storia generazionale” (Cigoli, op, cit).
Cancrini, (2020), a tal proposito, propone una metodologia di lavoro che veda coinvolti tutti i soggetti in quanto bisogna integrare più livelli:
– la famiglia biologica con quella adottiva;
– l’immagine e la rappresentazione di genitore buono con quello cattivo, aiutando i ragazzi adottivi a comprendere i motivi dell’abbandono e, conseguentemente, perdonare i genitori biologici. Bisogna anche trovare tutti i ricordi positivi della permanenza con i genitori biologici;
– il prima e il dopo dell’adozione, che a livello temporale comporta l’integrazione di due origini, due mondi diversi, due rappresentazioni di sé diverse e distanti tra loro.
Per poter integrare bisogna ricostruire il pre-adozione i cui ricordi sono spesso frammentati, ed è necessario ricavare tutte le informazioni possibili per potergli dare un senso compiuto. Grotevant (1997), e Dunbar, Kohler, Esau (2000) sostengono che per un ragazzo costruire la propria identità adottiva significa dare una risposta in continua evoluzione alla domanda “Chi sono io in quanto persona che è stata adottata?”. Sempre Grotevant, (op. cit.) fa presente che la sfida di dare un significato alle proprie origini, a volte sconosciute o poco chiare, porta il ragazzo che è stato adottato a chiedersi “da dove viene, chi sono i genitori biologici, perché è stato dato in adozione, se i genitori biologici lo pensano ancora, se ha dei fratelli, ed anche il significato che ha l’adozione nella propria vita”. Le risposte a queste domande aiuteranno il ragazzo a dare un senso al passato, a capire il presente e, soprattutto se stesso, per poi affrontare il futuro.
Román, Palacios, (2011) affermano che la storia precedente all’adozione non scompare con l’arrivo nella nuova famiglia, ed il legame con i nuovi genitori potrà essere in parte influenzato da queste esperienze precoci. Lo sviluppo dei bambini e delle bambine adottati, sopratutto di quelli che hanno subito maltrattamenti legati a negligenze dei genitori biologici, presenta una distorsione delle relazioni affettive che influenza in maniera negativa la loro storia. I suddetti influssi connotano sopratutto l’adolescenza, ovvero la fase fondamentale per l’integrazione del sé.
I dati di empirici, in particolare di Van IJzendoorn, e Klein Poelhuis, (2005), mettono in evidenza che le persone che sono state adottate tendono a presentare più difficoltà e problemi comportamentali rispetto a quelle che non lo sono state.
Uno dei problemi maggiori che si trovano ad affrontare nella fase adolescenziale è quello, come già accennato, della doppia origine, della doppia appartenenza e della loro integrazione. Come riportano Scabini e Cigoli (2000), riguardo alla doppia origine e appartenenza le famiglie adottive fluttuano lungo un continuum che va dalla negazione alla marcatura della differenza. La negazione è quella che mantiene in vita le aree segrete, “assimilando il figlio adottivo a quello biologico e tacitando tutto ciò che in qualche modo richiama le differenze d’origine” perché dolorose. La coppia che enfatizza la differenza invece, concepisce il figlio come “esterno” e i suoi atteggiamenti “disubbidienti” vengono legati alle sue origini diverse. Secondo questi autori, solo attraverso un “patto di riconoscimento e di valorizzazione delle differenze” il figlio adottato diventerà un figlio, capace di portare avanti i valori e i credo della famiglia, arricchendo tutti i partecipanti della propria diversità.
Grotevant, Perry, McRoy, (2005) considerano l’adozione come un processo che si snoda durante la crescita, cioè un “lifelong process” che continua per tutta la vita, ed essa viene descritta anche come una sorta di danza relazionale in quanto richiede continui aggiustamenti e modificazioni dei pattern relazionali. Rosnati (2010) fa rilevare che il processo di valorizzazione delle differenza non è dato una volta per tutte, ma continua nel tempo e trova nelle transizioni e nei punti di svolta momenti che possono essere rilevanti, nei quali i protagonisti sono chiamati a rimettere in discussione le modalità relazionali acquisite.
E’ in questa complessità che i ragazzi adottivi si trovano inseriti in una sorta di doppio legame: la scelta tra due sistemi valoriali quello della famiglia di origine e quello della famiglia adottiva. Qualsiasi scelta comporterebbe una rinuncia ad uno dei due e, contemporaneamente, tradirebbe l’altro. Nell’ambito dei processi intergenerazionali Bosorzomeny- Nagy e Spark (op. cit.) hanno inserito il concetto di lealtà attraverso il quale il singolo aderisce al sistema valoriale familiare, sia espresso che inespresso, e al quale mostra totale obbedienza e la famiglia, per mantenere il suo equilibrio e la sua stessa esistenza, soddisfa le sue aspettative riguardo al figlio attendendosi totale obbedienza di pensiero, emozioni e motivazioni.
E’ quello che si aspettano i genitori adottivi che non tengono conto che per l’adottato è in atto in questa fase un conflitto di lealtà che comporta uno sfrozo rielaboratativo notevole: si trova a dover ridurre, a mettere insieme differenze, a volte, incolmabili. E’ questo conflitto di appartenenza e di lealtà che non gli permette il necessario processo di autonomizzazione: il mancato riconoscimento della sua diversità porta i ragazzi adottati ad assumere spesso comportamenti provocatori. Tra l’altro il riconoscimento genera riconoscimento: io mi riconosco nella misura in cui tu mi riconosci. Honneth (2002) sostiene che “il rapporto intersoggettivo è determinato dal reciproco riconoscimento – cioè dalla reciproca attribuzione di valore – da parte dei soggetti in gioco”. Essendo il riconoscimento una esigenza primaria dell’uomo, il non essere riconosciuti comporta la messa in atto di comportamenti, anche negativi, che esprimono: “io ci sono”.
I genitori adottivi, al contrario, spesso sono talmente impegnati a curare le loro aspettative rispetto al figlio che avrebbero voluto e che si sono impegnati a curare e/o a risolvere i nodi conflittuali legati ai lutti vissuti, che non riescono comprendere la diversità e le difficoltà del figlio. Questi atteggiamenti sono un attacco devastante al legame adottivo poiché esso, come tutti i legami, si nutre di fiducia e speranza di poter essere ricambiati: il figlio adottivo vuole essere ricambiato per aver risolto il lutto della loro sterilità/infertilità e dal pericolo della loro mancata generatività; i genitori per essersi presi cura di lui e averlo di fatto ri-generato.
La riuscita del legame adottivo dipende dalla elaborazione e dalla presa di coscienza di queste fantasmagoriche istanze inconsce: solo il bilanciamento e l’integrazione, nella speranza e nella fiducia nel legame, permette il necessario processo di autonomizzazione. Cigoli (op. cit) sostiene che il destino delle famiglie adottive è legato alla“bilancia simbolica”su i cui piatti da un lato troviamo il “nome-eredità” e dall’altro la “vivibilità-accoglienza”.
Il primo piatto contiene il “patris numus” ovvero la continuazione della specie, della stirpe, del famigliare insomma, il quale costituisce, inoltre, “la protezione e la difesa […] nei confronti dell’angoscia di disgregazione e della perdita di identità”.
La vivibilità-accoglienza tende a rendere l’adozione, attraverso l’imitazione, “somigliante in tutto e per tutto al naturale familiare”. Il legame adottivo trova i suoi significati simbolici nella “charis”, ovvero nell’amore verso il prossimo ad immagine dell’amore di Dio verso gli uomini: in fondo nella concezione giudaico-cristiana abbiamo un unico padre e unica madre essendo tutti figli di Dio. E’ attraverso la vivibilità-accoglienza che il processo adottivo può essere iscritto, oltrepassando i legami di carne e di sangue, all’interno del registro degli affetti.E’ nel bilanciamento dei due piatti chi il processo adottivo può dirsi riuscito.
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