L’Affido familiare

A cura della Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica, Responsabile Settore Comunicazione Pronto Soccorso Psicologico-Italia.

Abstract

Foster care must be imagined “as a bridge” on which the child travels, suspended between biological generativity and acquired parenthood, in a succession of attachments and separations that need to be adequately supported and monitored” (G. Ferraioli).

Every child has the right to have a family (mainly their own) within which they can grow up in the best possible way, living in a condition of physical and psychological well-being, developing all their abilities and potential, and experiencing their worth.

When the family of origin does not embody that first naturally welcoming environment, the place par excellence in which to feel loved and protected, family fostering represents above all “the possibility that a child can grow up in any case balanced and loved, and that his family recovers own shortcomings.”

Riassunto

L’Affido familiare va immaginato “come un ponte” su cui viaggia il bambino, sospeso tra generatività biologica e genitorialità acquisita, in una successione di attaccamenti e separazioni che necessitano di essere adeguatamente sostenuti e monitorati”, (G. Ferraioli).

Ogni bambino ha diritto ad avere una famiglia (principalmente la propria), all’interno della quale poter crescere nel migliore dei modi, vivendo in una condizione di benessere fisico e psicologico, sviluppando tutte le proprie capacità e potenzialità, e sperimentando il proprio valore.

Quando la famiglia d’origine non incarna quel primo ambito naturalmente accogliente, il luogo per eccellenza dove sentirsi amati e protetti, l’Affido familiare rappresenta soprattutto “la possibilità che un bambino possa crescere comunque equilibrato e voluto bene, e che la sua famiglia recuperi le proprie mancanze”.

Affido familiare

“[…]Accogliere è preparare una dimora per l’altro, un punto provvisorio di approdo e di arresto, nell’incessante moto della vita”, (A. Vigorelli)

L’Accoglienza è uno dei pilastri fondamentali del fare Famiglia.

Tutta l’esperienza familiare è caratterizzata dalla “pratica dell’accoglienza”, e costellata di momenti, gesti, azioni che la mettono in atto: a cominciare dall’accoglienza del proprio partner (con la rispettiva famiglia di origine), per arrivare a quella dei figli ed, in generale, dei parenti e delle persone care che orbiteranno intorno alla casa.

Il termine “accogliere” deriva dal latino accolligere (ad+colligere). L’etimologia rivela un’accezione piú fisica, materiale meccanica, intesa come “legare insieme, stringere in un fascio, raccogliere da terra”.

Diverse riflessioni filosofiche hanno saputo recuperare il senso ontologico-esistenziale del termine: J. Patocka, pensatore boemo, individua nell’atto di accogliere il “primo e fondamentale luogo di sedimentazione e di stabilizzazione del movimento dell’esistenza, nel suo distaccarsi e sollevarsi sopra il livello della mera fisicità”.

Accogliere è una delle parole necessarie ad esprimere il proprio senso di responsabilità nei riguardi dell’altro; accogliere è ricevere presso di sé, ammettere nel proprio gruppo.

Anche l’Affido familiare è un’”esperienza di accoglienza”: complessa, ma possibile e tanto preziosa allo stesso tempo: attraverso di esso un bambino -i cui genitori vengono temporaneamente giudicati “inabili” all’esercizio delle proprie funzioni e non possono, pertanto, occuparsi delle sue necessità- incontra un’altra famiglia che, “accogliendolo nella propria vita” (nella propria casa, tra i propri affetti e legami), si impegna ad assicurare temporaneamente un’adeguata risposta ai suoi bisogni di mantenimento, affettivi, educativi e di istruzione, nel rispetto della sua storia individuale e familiare; la speranza è infatti quella che un giorno il bambino possa fare ritorno nella propria famiglia d’appartenenza (proprio questa “temporaneitá di separazione” dalla famiglia di origine differenzia l’affido familiare dall’adozione, che comporta invece l’instaurarsi di un legame filiale definitivo ed esclusivo).

L’affido si può pertanto definire come un intervento di aiuto sia al bambino che alla sua famiglia in difficoltà, un “ponte” che consente al minore un transito temporaneo verso un ambiente di vita maggiormente adeguato ad un sano processo di crescita e sviluppo.

In situazioni in cui le relazioni familiari sono disfunzionali, l’ambiente di vita è carente e lo stile di accudimento si rivela deleterio, l’affido familiare rappresenta una nuova occasione, sia per il bambino che per i genitori naturali, di permettere una continuità educativa e di far ripartire il percorso evolutivo su un binario più sicuro.

Esso deve, quindi, essere necessariamente pensato come una forma di presa in carico di tutto il nucleo familiare: “la famiglia affidataria rappresenta non solo un’occasione per il bambino di riabilitare le proprie capacità precocemente interrotte o disturbate dalle distorsioni delle relazioni genitoriali e familiari, ma anche una nuova occasione per i genitori naturali di sperimentare loro stessi una forma di sostegno e di aiuto” (G. Degl’Innocenti, 2015).

L’obiettivo principale è quello di “mantenere ed eventualmente aiutare a ricomporre i rapporti del bambino con i suoi genitori biologici attraverso strumenti alternativi al ricovero in Istituto, come ad esempio l’assistenza domiciliare e gli aiuti economici e psicologici al nucleo in difficoltà” (M. Solaro del Borgo Foglia, 1990).

Da un punto di vista maggiormente psicologico, l’affido familiare si basa sul fondamentale riconoscimento dell’importanza vitale che rappresenta, per un adeguato sviluppo psico-fisico, la “qualità delle cure” prodigate al bambino dalle figure significative, nei suoi primi anni di infanzia.

Le ricerche sull’Attaccamento ci mostrano infatti come per il bambino, nei primi anni di vita, sia condizione indispensabile per un sano sviluppo psicologico, la presenza di una figura di accudimento stabile, capace di assicurare un’adeguata interazione affettiva ed uno stile di attaccamento sicuro; modalità dalle quali prenderà vita, nel futuro, lo schema di riferimento per i rapporti con sé stessi e con il mondo.

Ogni bambino ha pertanto diritto ad avere una famiglia (principalmente la propria), all’interno della quale poter crescere nel migliore dei modi, vivendo in una condizione di benessere fisico e psicologico, sviluppando tutte le proprie capacità e potenzialità, e sperimentando il proprio valore;

talvolta accade però che ció non sia possibile, poiché i genitori presentano delle difficoltà (che possono essere di varia natura: economiche, psico-fisiche…) che causano una grave compromissione sia dell’ambiente di vita che della qualità dei legami, un’incapacità di far fronte alle esigenze pratico-concrete ma anche emotivo-affettive del figlio, e non permettono loro di poter esercitare il proprio ruolo come dovrebbero.

Le ragioni che determinano l’allontanamento del minore dalla propria famiglia sono sicuramente condizioni di negligenza materiale ed affettiva, ossia l’incapacità delle figure genitoriali di fornire tutte quelle cure “sufficientemente buone” di cui parlava D. Winnicott, indispensabili per un armonico sviluppo della personalità.

La famiglia è, d’altronde, “un sistema funzionale la cui operatività può essere alterata dalla sua composizione interna così come da situazioni esterne” (U. Brofenbrenner, 1978).

Le risorse pratiche, intese come fonti di supporto materiale quotidiano nella gestione dei figli, hanno un peso tanto quanto le caratteristiche psico-emotive dei membri (in questo caso, dei genitori). È infatti sicuramente importante poter disporre delle risorse economiche necessarie ad un sostentamento di tipo materiale, ma è altresí fondamentale che vengano esercitate delle adeguate funzioni genitoriali; queste ultime richiedono capacità di vario genere, derivanti fondamentalmente da una “sensibilità” ai segnali che provengono dal bambino, e dalla conseguente capacità di rispondere adeguatamente ai differenti bisogni che caratterizzino le diverse fasi -anche critiche- del suo sviluppo (M. Rutter, 1989).

I genitori devono essere in grado di offrire sicurezza, cura, contenimento, protezione, sostegno, supporto, e favorire legami che implichino reciprocità, soddisfazione di bisogni, sintonizzazione affettiva, compenetrazione di vissuti, risoluzione o mediazione e gestione costruttiva di inevitabili conflitti, consentendo cosí adeguati processi educativi e di sviluppo.

Le cause di un disfunzionamento genitoriale possono essere svariate e sono indubbiamente complesse, e fanno sí che il centro degli affetti e della sicurezza e protezione fisica ed emotiva possa trasformarsi in teatro di profonde carenze o deviazioni educative e drammatici sfruttamenti: precarietà economica ed ambientale, maltrattamenti, violenza ed abusi, condizioni di invischiamenti paralizzanti che non permettono quel vitale movimento di autonomia ed emancipazione o, di contro, realtà totalmente inconsistenti e deprivanti che fanno percepire forti sentimenti di angoscia, inermità ed abbandono.

Alcuni autori, tra cui H. Stierlin, hanno sottolineato come l’elemento strutturale comune di molte famiglie problematiche sia riconducibile proprio ad una distribuzione patologica di stili relazionali assimilabili a categorie di attaccamento quali l’”invischiamento” o il “disimpegno” che si concretizzano, da una parte, con l’esasperazione di certe “attitudini fusionali” e, dall’altra, con “brusche separazioni e abbandoni”, reali o percepiti come tali a livello psicologico.

A fronte di ciò, “se una società vuole davvero aiutare i bambini in difficoltà, deve trovare un modo per aiutare i loro genitori” (J. Bowlby, 1973).

Ecco che allora, a tal proposito, la legge contempla il ricorso ad un Istituto chiamato “Affido familiare” (Legge n.184 del 1983, divenuta Legge n.173 nel 2015, a seguito di alcune revisioni e modifiche) secondo il quale, per un determinato periodo di tempo, un’altra famiglia potrá “accompagnare” la vita di bambini con contesti familiari problematici, senza che però scompaiano i legami con le famiglie di origine che, nel frattempo, intraprenderanno un “percorso di recupero” delle proprie funzioni genitoriali.

Quando la famiglia d’origine non rappresenta quel primo ambito naturalmente accogliente, il luogo per eccellenza dove sentirsi amati e protetti, l’affido rappresenta soprattutto la possibilità che un bambino possa crescere comunque equilibrato e voluto bene, e che la sua famiglia recuperi le sue mancanze.

Proprio in virtù di ciò viene riconosciuto all’affido un valore fortemente positivo e di grande speranza poiché afferma un bene possibile anche in situazioni di grave disagio, oltre ad un’elevata valenza sociale in quanto si caratterizza come “gesto sussidiario” rispetto ad una famiglia in difficoltà. “L’affidatario assume un ruolo ausiliario ed integrativo rispetto al ruolo dei genitori biologici, che non viene giuridicamente modificato” (A. Dell’Antonio, 1989).

Secondo quest’ottica la famiglia affidataria non diventa la nuova famiglia del bambino, non si sostituisce, né si pone in alternativa a quella di origine, ma rappresenta “una famiglia in più”, un ausilio per un periodo di tempo prestabilito (che può essere prorogato ogni due anni dal Tribunale dei minori qualora dovesse ancora persistere l’inabilità genitoriale, fino a sfociare nello “stato di adottabilitá” nel caso di fallimento del percorso di recupero della famiglia di origine), durante il quale cerca piuttosto di mantenere vivi i rapporti del bambino con la famiglia naturale, in vista del suo futuro rientro in essa.

Nonostante questa chiarezza di significati e funzioni reciproche, non mancano però, per tutti i soggetti implicati nel processo di affido familiare (bambino, famiglia affidataria, famiglia di origine), vissuti e sentimenti piú complessi del previsto. Non è raro infatti che possano sorgere alcuni aspetti problematici relativi alle “dinamiche relazionali” che inevitabilmente si innescano tra i soggetti coinvolti.

• Per il bambino appaiono implicati, in prima istanza, processi di attaccamento, di separazione e di perdita.

Non bisogna infatti dimenticare che “al centro” di tutto questo c’è proprio il bambino, con il suo dolore per il distacco dai suoi genitori, con la ferita della separazione da loro, dalla sua casa, dalle sue cose… con lo smarrimento verso il futuro, con il senso di colpa di aprirsi a nuovi legami e affetti (conflitto di lealtà), misto a rabbia nei confronti delle nuove figure accudenti, ritenute responsabili della separazione dai propri genitori; dinamiche queste piú o meno intense e consapevoli, a seconda dell’età e del grado di maturazione psichica del bambino.

Nei casi di affido non è raro assistere ad atteggiamenti particolarmente ostili da parte dei bambini affidati nei confronti degli affidatari: capricci, pianti inspiegabili, oppositivitá; si tratta della cosiddetta “collera funzionale”, determinata dall’estraneità delle nuove figure e, principalmente, dal ritenerle responsabili della separazione dai genitori naturali (J. Bowlby, 1978.), (la stessa che contribuisce al mantenimento del canale aperto con la famiglia di origine in vista del ritorno in essa).

Il bambino, a causa della sua immaturità, non comprende di avere “temporaneamente” delle nuove figure adulte a cui fare riferimento, ma è convinto di aver perso per sempre le sue uniche garanti della propria identità. Inoltre, per un bambino che non ha mai sperimentato un adeguato accudimento genitoriale, l’incontro con la dedizione dei genitori affidatari propone un raffronto con il vuoto della famiglia biologica, da cui derivano tutta una serie di comportamenti disadattivi che vanno dalla rabbia, all’invidia, alla distruttività, con l’intento primario di “mettere alla prova” la resistenza, soprattutto psicologica, della famiglia ospitante.

Il confronto tra vecchi e nuovi modus viventi alimentano il cosiddetto conflitto di lealtà ed il senso di colpa che ne deriva; ma proprio l’inserimento nella nuova famiglia permette al bambino di sperimentare nuovi stili di attaccamento, di ripensare ad una nuova modalitá di relazionarsi, vivendo un’”esperienza emotiva e relazionale e correttiva”, con la conseguente possibilità di modificare nel tempo i suoi modelli operativi interni (J. Bowlby, op. cit.).

Insieme a tutto ciò, l’aspetto predominante rimane comunque quello della regressione profonda del bambino, conseguente al “trauma dell’abbandono e della perdita”. Shock, negazione, protesta, disperazione rappresentano le naturali reazioni alla separazione che sopraffanno il soggetto che le vive, non consentendogli di esplorare cognitivamente ed emotivamente il nuovo contesto familiare. Il bambino sperimenta la perdita delle proprie abitudini e dei propri punti di riferimento e, con essi, la perdita della possibilità di essere curato opportunamente a causa di una genitorialitá trascurante ed inadeguata, in quanto egli non può ricevere dai propri genitori risposte appropriate ai suoi bisogni, e questo questo vissuto lo accompagnerà durante tutto il corso dell’affido (M. Carminati et al., 2012);                 il ruolo della famiglia affidataria sarà determinante nell’impedire o meno che tali regressioni possano stabilizzarsi, provocando notevoli conflitti interni causa di vere e proprie “nevrosi infantili” (A. Freud, 1944).

Il minore, venendo sdradicato dal suo ambiente di vita ed immesso in un contesto a lui del tutto nuovo, è incapace, nella maggior parte dei casi, di comprendere oggettivamente la situazione ed accettarla, e tende a vivere l’esperienza dell’affido come “un vero e proprio lutto” (S. Freud, 1915).

A questo proposito, la difficoltà maggiore per il bambino consiste nel dover accettare la “perdita della figura materna” e, conseguentemente, nel dover riorganizzare il comportamento di attaccamento e dirigerlo verso nuove figure (J. Bowlby, op. cit ). La separazione precoce dalle figure significative rappresenta una variabile chiave nel determinare lo stato emotivo di un bambino poiché, se interviene prima della “costanza dell’oggetto”, produce un’intensificazione dell’angoscia depressiva, con conseguenze vissuti di depressione e sentimenti di colpa (M. Klein, 1952).

• Nella famiglia affidataria si attivano soprattutto sentimenti riferibili, in senso lato, a desideri di maternità o paternità -già realizzati, oppure delusi-, bisogno di allargare la propria famiglia, paura del “nido vuoto”, per figli che crescono e se ne vanno, ed altre motivazioni tra cui: senso di solidarietà, disponibilità in termini di tempo e spazio, bisogno di senso. Nella maggior parte dei casi prevalgono “motivazioni connotate da una valenza fortemente altruistica” (D. Bramanti, 1991).

Tuttavia alcuni autori avanzano l’ipotesi che l’affidamento familiare talvolta possa nascondere (specie nella madre affidataria) un “desiderio di adozione mascherata” (L. Fatiga, 1987); ed i fatti sembrano confermare questa ipotesi, poiché un’alta percentuale di affidi si conclude in un’adozione da parte della famiglia affidataria. “La madre affidataria tenderebbe a nascondere il desiderio di adozione attraverso un apparente consenso alla durata limitata dell’affido” (S. Lebovci, M. Soulè, 1970).

E sempre la madre affidataria è colei che, in tutto il percorso, sembra avere un ruolo maggiormente preponderante: sin dalla nascita e dall’elaborazione dell’idea dell’affido, dove nella coppia richiedente (sebbene l’esperienza dell’affido coinvolga l’intero nucleo familiare), è soprattutto la donna che decide di vivere questa esperienza. Questa capacità di allestire luoghi di accoglienza” è una caratteristica intrinseca dell’identità femminile che si definisce proprio da un punto di vista interpersonale nella relazione con l’altro (C. Galligan).

• Per la famiglia di appartenenza, che in tutto ciò probabilmente rimane un po’ piú sullo sfondo, entrano in gioco “sentimenti di inadeguatezza, depressione e colpa nei confronti del proprio figlio” (M. Albergamo, 1992), ansie e conflitti interni derivanti dall’angoscia della separazione, e senso di rivalità e gelosia nei confronti dell’altra famiglia.

Ciò che sovente si verifica è infatti proprio una competizione tra le due famiglie, determinata da un “senso di possesso del minore” sia da parte di chi lo ha generato, che da parte degli affidatari. La famiglia biologica vive pertanto l’affido come un’”espropriazione del proprio bambino”, mentre gli affidatari vedono la collaborazione dei genitori di origine come una “modalità di intrusione” nel compito che sono tenuti a svolgere (A. Dell’Antonio, op. cit.).

Il vissuto della perdita è comunque centrale anche nella storia dei genitori naturali, che sentono di essere delegittimati del proprio ruolo e, anche se in parte, esclusi dal percorso evolutivo di coloro che loro stessi hanno dato alla luce. Questo rende difficilissima la condivisione del progetto di affido, con il rischio di ostacolarne l’attuazione, minando la possibilità che esso vada a buon fine.

Da quanto esposto risulta chiaro come l’affido familiare generi, nei suoi protagonisti diretti, processi psicosociali e dinamiche emozionali altamente complesse; di conseguenza il ricorso a questo Istituto non ne garantisce di per sé la terapeuticità.

Le potenzialità di questo intervento di accompagnamento e di ausilio ad una genitorialitá altamente deficitaria sono numerose, ma in esso sono insiti altrettanti rischi; risulta pertanto necessario che il percorso di affido del minore venga intrapreso nel modo più adeguato possibile.

A questo proposito spetta agli operatori psicosociali valutare correttamente tutte le variabili in gioco e le caratteristiche psicologiche dei diretti interessati (con rispettivi bisogni e motivazioni), ed adottare di conseguenza le strategie piú idonee, tenendo sempre presente che l’allontanamento del minore dalla propria famiglia d’origine deve comunque rappresentare una soluzione estrema a cui fare ricorso.

Allo stesso tempo però è anche vero che lo strumento rappresentato dall’affido contribuisce alla riduzione delle situazioni di istituzionalizzazione dei minori, e viene privilegiato in quanto ritenuto un contesto relazionale più vicino alla normalità, più affettivo e più stabile.

Anche i professionisti del Pronto Soccorso Psicologico-Italia muovono dalla consapevolezza dell’importanza fondamentale che l’intervento degli esperti del settore psicologico riveste nella complessa esperienza di affido familiare, attraverso un lavoro di supporto e sostegno continui, da ricontrattare periodicamente, in linea con le varie fasi del percorso di affido familiare.

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Bibliografia

– G. Degl’innocenti, 2015, “I legami di cura: attaccarsi, separarsi, affidarsi”

– M. Solaro del Borgo Foglia, 1990, “Aspetti sociologico-giuridici dell’affidamento etero-familiare”

– U. Brofenbrenner, 1978, “The ecology of human development”

– M. Router, 1989, “Intergenerational continuities and discontinuities in serious parenting”

– H. Stierlin, 1978, “La famiglia e i disturbi psicosociali” (trad. it.)

– J. Bowlby, 1973, “Assistenza all’infanzia e sviluppo affettivo” (trad. it.)

– J. Bowlby, 1978, “La separazione dalla madre” (trad. it.)

– A. Dell’Antonio, 1989, “La consulenza psicologica per la tutela dei minori”

– M. Carminati et al, 2012, “Nuove sfide per l’affido”

– A. Freud, 1944, “Bambini senza famiglia” (trad. it.)

– S. Freud, 1915, “Lutto e Melanconia” (trad. It.)

– M. Klein, 1952, “Scritti 1921-1958” (trad. it)

– D. Bramanti, 1991, “Le famiglie accoglienti. Un’analisi socio- psicologica dell’affidamento familiare”

– L. Fatiga, 1988, “L’affidamento: dalla parte della famiglia affidataria”

– S. Lebovci & M. Soulè, 1970, “La conoscenza del bambino e la psicoanalisi” (trad. it.)

– M. Albergamo, 1992, “Il problema dell’affido familiare nel vissuto delle assistenti sociali”

Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica, Responsabile Settore Comunicazione Pronto Soccorso Psicologico-Italia