A cura del Prof. Mariano Indelicato, Presidente Pronto Soccorso Psicologico-Italia
Abstract
Women’s Day allows us to reflect on the gender difference that has a long and varied history. The deterministic paradigms, with the consequent categorization of attitudes, feelings, and behaviors, have meant that all research, even in the psychological field, has been aimed at highlighting the difference to be able to confirm the subordination of the female gender compared to the male one. The reductionism inherent in such operations created the premises for the birth of gender stereotypes. Based on these, the female gender has been precluded from a series of activities that could allow her to realize both in individual and social terms. It didn’t go much better with the search for the equality of masculine and feminine traits which only confirmed what was already known.
True gender equality can only be understood by reading the complexity, where difference and equality must be valued as gender traits that nothing prevents women from holding roles considered masculine: it is not the roles that determine who must occupy them, but if anything it is who occupies them that characterizes them. To do this, to get out of a typically linear culture linked to weaving the web of causes that produce certain effects, we need to take into account all the variables involved and, therefore, finally be able to get rid of the stereotypes that have penalized women in the course of their life history.
Riassunto
La Festa della Donna ci da l’occasione per riflettere rispetto alla differenza di genere che ha una storia lunga e variegata. I paradigmi deterministici, con la conseguente categorizzazione degli atteggiamenti, dei sentimenti e dei comportamenti ha fatto si che tutte le ricerche, anche in ambito psicologico, siano state volte al mettere in risalto la differenza in modo da poter confermare la subalternità del genere femminile rispetto a quello maschile. Il riduttivismo insito in operazioni del genere di fatto ha creato le premesse per la nascita degli stereotipi di genere. In base a questi al genere femminile sono state precluse una serie di attività che le potessero permettere la realizzazione sia in termini individuali che sociali. Non è andata molto meglio con la ricerca dell’uguaglianza dei tratti maschili e femminili che non ha fatto altro che confermare quanto già si sapeva.
La vera parità dei generi può essere compresa solo attraverso la lettura della complessità, dove la differenza e l’uguaglianza devono essere valorizzati come tratti di genere che nulla ostano al femminile a ricoprire ruoli considerati maschili: non sono i ruoli che determinano chi li deve occupare, ma semmai è chi li occupa che li caratterizza. Per fare ciò, per uscire fuori da una cultura tipicamente lineare legata a intessere la tela delle cause che producono determinati effetti, bisogna tenere conto di tutte le variabili in gioco e, quindi, potersi finalmente liberare degli stereotipi che hanno penalizzato le donne nel corso della storia.
Introduzione La ricorrenza della Festa della Donna ha una storia lunga e variegata che attraversa tutto il secolo scorso. La data dell’8 marzo è stata, spesso, associata ad un incendio che si sviluppò nell’industria tessile Cotton di New York nel 1908 in cui morirono molte donne. In realtà, anche per una confusione di date riguardo alla suddetta vicenda -poiché sembra che sia stata scambiata con un’altra tragedia avvenuta nel 1911 sempre nella stessa città in cui morirono 146 donne- i primi movimenti femminili nacquero per ottenere il riconoscimento del diritto di voto.
La prima giornata della donna, in effetti, si svolse il 23 febbraio del 1909, a seguito di un movimento delle donne all’interno del partito socialista negli Stati Uniti per rivendicare il diritto delle donne al voto. Successivamente a Copenaghen durante un congresso mondiale nel 1910 venne istituita la giornata internazionale della donna che però veniva festeggiata in tutto il mondo in giornate diverse.
Nel 1917, l’8 marzo, le donne sovietiche manifestarono per chiedere la fine della guerra e successivamente il partito comunista sovietico istituì la stessa giornata come giornata internazionale dell’operaia. Solo nel 1975, anno che l’ONU aveva dichiarato come anno internazionale delle donne , l’8 marzo è stata istituita come Giornata Internazionale della Donna.
L’8 marzo, quindi, non è una festa commerciale, contenuto che ha assunto negli ultimi anni, ma una giornata che serve a riflettere sulle condizioni della donna e delle lotte che ha dovuto affrontare ai fini della parità con il genere maschile.
Già la sua istituzione pone un problema di parità di genere che storicamente non c’è mai stata. Il ruolo della donna, infatti, è stato da sempre considerato secondario e al servizio di quello maschile che ha sempre detenuto il potere di decidere delle sue sorti e del suo destino. Solo negli ultimi 40-50 anni le donne hanno conquistato una serie di diritti che erano state precluse loro nel corso del tempo.
Le donne nel corso della storia sono state lapidate, messe al rogo, violentate, stuprate, infibulate, uccise, etc. solo e semplicemente per il loro essere donne. La letteratura offre numerosi esempi di donne eroine costrette a pagare colpe che non avevano mai commesso. Basta citare Hester, la protagonista della Lettera Scarlatta (1850) che, considerata adultera, fu processata e pubblicamente umiliata attraverso l’esposizione sul patibolo con la lettera “A” (Adultera) stampata sul petto, o ancora Balzac che nella novella Sarrasine (1830) così descrive un castrato travestito da donna: “Era la donna, con le sue paure improvvise, i suoi capricci irragionevoli, i suoi turbamenti improvvisi, le sue audacie immotivate, le sue bravate e la sua deliziosa finezza di sentimenti”.
Dalla differenza all’uguaglianza, fino agli stereotipi di genere. La descrizione di Balzac ha il pregio di porre la questione principale che ha fatto si che la differenza di genere sia stata cosí marcata nel corso della storia antropologica dell’uomo. Le categorie maschile e femminile sono state riempite di significati che hanno di fatto penalizzato un genere, quello femminile, rispetto all’altro, quello maschile. Il maschile ed il femminile, infatti, spesso assumono l’ottica del senso comune dove “l’azione” è la categoria interpretativa del maschile, il “sentimento” il femminile, il potere e superiorità, l’agentico/espressivo discendono da essi, per cui … “Dio fece la donna per l’uomo” (Gelli, 2009, p.38).
Il riduttivismo che ha contraddistinto il pensiero scientifico, non tenendo conto della complessità dei fenomeni sociali non ha fatto altro che far nascere, accanto alle differenze, anche gli stereotipi di genere. Al maschile sono state cucite una serie di caratteristiche che hanno a che fare, in particolar modo, con la razionalità, mentre al femminile sono state associate le categorie legate all’emotività come al castrato travestito da donna di Balzac.
Alla donna, essendo dedita ai sentimenti e all’emotività, venivano precluse una serie di attività lavorative compresa l’educazione scolastica. Madame de Lambert già nel 1729 scrive “tanta è la tirannia degli uomini! Loro vogliono che noi non facciamo uso della nostra intelligenza né dei nostri sentimenti, hanno solo un grande interesse a richiamarci ai nostri primordiali compiti. Le donne possono dire agli uomini: “Che diritto avete voi di privarci dello studio delle scienze e delle belle arti? Le donne che si sono dedicate a tali studi, non hanno forse raggiunto risultati più che buoni?”. Madame de Lambert punta a dare un’istruzione mentale alle donne in modo che possano autodeterminarsi controllando le proprie emozioni. Sebbene siano passati più di 3 secoli la situazione attuale, vede ancora le donne penalizzate nell’accesso ad alcune branche scientifiche. In una ricerca condotta da Giberti (2019) relativa all’accesso alla matematica da parte delle donne risulta una grande disparità tra il genere maschile e femminile. Differenza che è possibile cogliere anche dai risultati delle prove INVALSI in cui i maschi avevano risultati migliori di quelle delle donne. Sia la disparità di accesso sia i risultati, secondo MacKinnon (1990) e Leder & Forgasz (2008), sono da far risalire, in primo luogo, nella storia del costume e della società e, in secondo luogo, nell’accesso alla cultura scientifica e, in particolare la matematica, era riservata quasi esclusivamente agli uomini e ben pochi nomi femminili vengono ricordati nella storia della matematica prima del secolo scorso.
Il problema è che gli stereotipi di genere impattano notevolmente sulla percezione delle proprie competenze e abilità e, di conseguenza, sulle scelte del percorso di studio e lavoro. Essi agiscono come minaccia che dissuade l’individuo nel perseguimento di un compito che la società giudica inadeguato per un uomo/ una donna (Lupton, 2006), ingenerando la tendenza a confermare lo stereotipo: “i processi di socializzazione connessi al ruolo sessuale ostacolano il coinvolgimento dei giovani in attività stereotipicamente ritenute poco appropriate al genere di appartenenza […]. I ragazzi, per esempio, vengono più spesso convinti di possedere le abilità per fare l’ingegnere o il chimico piuttosto che l’assistente sociale mentre l’opposto accade per le ragazze” (Bocchiaro e Boca, 2002, pp. 495-6).
Le teorie, i conseguenti costrutti, le ricerche in psicologia non hanno fatto altro che confermare per lunghissimo tempo lo stereotipo di genere poiché invece di esaltare e valorizzare le differenze, facendo riferimento alla complessità del maschile e del femminile, hanno certificato la subalternità della figura femminile rispetto a quella maschile.
Come non ricordare, a tal proposito, che Darwin il padre della teoria evoluzionistica considerava le caratteristiche intellettive delle donne come quelle delle razze inferiori e che il loro cervello era mediamente più piccolo di quello dei maschi. E, ancora, l’affermazione di Broca (1877): “in generale il cervello è più grande negli adulti maturi che negli anziani, negli uomini che nelle donne, negli uomini eminenti che in quelli di poco talento, nelle razze superiori che in quelle inferiori”.
La standardizzazione e taratura di alcuni test intellettivi come il Simon-Binet furono fatti solo sulla popolazione maschile per cui i risultati della popolazione femminile dovevano essere interpretati in funzione di quelli maschili. La teoria eugenetica di Galton, tesa a migliorare le caratteristiche delle varie popolazioni con tutti i mezzi che la scienza mette a sua disposizione, non considera la popolazione femminile.
Alla ricerca di conferme sulle differenze, sulle identità di genere altri studi hanno messo in luce che le ragazze, rispetto ai maschi, vengono indirizzati, sul piano educativo, alla ricerca della relazione con l’altro piuttosto che a obiettivi individuali. Block e Robbins (1993) in alcune ricerche sullo sviluppo dell’identità femminile hanno messo risalto che per le ragazze la presenza di qualità interpersonali come “calore” e disponibilità è correlata ad alti livelli di autostima. Allo stesso modo in uno studio di Thorne e Michaelieu (1996) sui livelli alti di autostima degli adolescenti rilevano che essa si associa a esperienze d’infanzia di aiuto agli altri, per le ragazze, e di autoaffermazione, per i ragazzi. In sostanza, queste ricerche confermano che la ricerca di valori nelle donne privilegi fattori di tipo oblativo come l’interazione con gli altri piuttosto che mete individuali (De Coro, 2022).
Anche la creatività è stata studiata in funzione del ruolo maschile e, in seconda analisi, di quello femminile. La psicoanalista Chasseguet-Smirgel (1964), rifacendosi alle sue esperienze cliniche, all’inizio dei movimenti femministi, sviluppando la tesi della Horney (1973) secondo la quale la creatività maschile è legata alla mancanza di generare dei maschi, fa rilevare che quella femminile è legata al senso di colpa femminile di avere un pene, legata al padre idealizzato. L’assenza di un padre idealizzato non produce nessun atto creativo poiché la ragazza non può proiettare il suo narcisismo su una figura ideale che può essere raggiunta appunto con un atto creativo. Winnicott (1957), a tal proposito, distingue due tipi di linguaggio creativo, frutto della bisessualità costituiva del genere umano secondo Freud, che si mescolano poiché ogni genere contiene o prende a prestito caratteristiche dell’altro. Al contrario per Jung (1936), il maschile e femminile, oltre ad essere distinti dalle esperienze infantili e dalle modalità educative, trovano spiegazioni simboliche all’interno delle esperienze archetipe: “nella storia dell’umanità, la differenziazione tra uomo e donna è una delle prime e più efficaci proiezioni di opposti, e per l’uomo primitivo, maschile e femminile valgono come prototipi degli opposti. Per questa ragione, qualsiasi posizione di contrasto assume con facilità archetipica maschile e femminile e quindi anche il principio di coscienza e inconscio viene percepito con questa simbologia, secondo la quale il maschile è identificato con la coscienza e il femminile con l’inconscio” (Neumann, 1959, p. 29). Ritorna il castrato travestito da donna. Addirittura Neumann rincara la dose coinvolgendo “la totalità della psiche” e il corpo: “la totalità della psiche, il cui punto centrale è il sé, si trova in rapporto diretto di identità che è portatore anche dei processi psichici [….] Dobbiamo allora ritenere che esista una diversità biopsichica tra i sessi, la quale anche se non è descrivibile secondo qualità caratteriologiche precise, si manifesta a livello archetipo e simbolico, e quindi il sé, come totalità della personalità, ha a buon diritto i segni del sesso esterno la cui condizione ormonale è strettamente legata a quella psichica” (Neumann, 1959, p. 30).
Il sesso, quindi, come categoria sociale e, nello stesso tempo antropologica, diventa il mezzo con cui catalogare le differenze e le somiglianze tra i due generi arrivando ad affermare, all’interno di una visione lineare (causa-effetto), che la natura determina la cultura.
Sotto la spinta dei movimenti femministi, dagli anni ‘70 ad oggi le teorie psicologichesulla differenza sessuale e i nuovi strumenti di individuazione degli attributi maschili e femminili insistono sulle rappresentazioni sociali che si sedimentano nella coscienza e nella memoria collettiva come un “archivio storico” che salvaguarda la propria identità inevitabilmente radicata in appartenenze di gruppo. Le chiavi interpretative e i costrutti si sono focalizzati su caratteristiche contrapposte quali competenza/cura, forza/dolcezza, indipendenza/dipendenza, dominio mondo esterno/dominio mondo interno, etica dei diritti/etica della responsabilità.
I pionieri di questi studi furono Williams e Bennett (1975) che generarono due distinte liste di aggettivi correlati alle supposte caratteristiche di uomo e donna. Gli uomini erano descritti come ambiziosi, assertivi, sicuri di sé, razionali; le donne come emotive, sensibili, gentili, lamentose. I giudizi mostrarono un elevato grado di accordo tra i rispondenti uomini e donne. La ricerca evidenziò che lo stereotipo maschile assume su di sé un maggior numero di caratteristiche positive rispetto a quello femminile. Altri studi hanno riguardato i tratti di personalità ( McCrae e Costa, 1999, Löckenhoff e coll. (2014) attraverso la somministrazione del big five ed evidenziano che le donne raggiungono punteggi più alti sulle dimensioni di stabilità emotiva e amicalità, ma anche sulle dimensioni di apertura mentale (eccetto nella sottodimensione della curiosità intellettuale) e coscienziosità (tranne che nella sottodimensione della competenza intesa come fiducia in se stessi e nella sottodimensione della deliberazione, intesa come capacità di pensare prima di agire o parlare). Al contrario, gli uomini tendono a raggiungere punteggi più elevati nella dimensione dell’energia (estroversione), in particolare nelle sottodimensioni dell’assertività e dell’eccitazione. Sebbene cambi il paradigma ovvero il primato della cultura sulla natura, l’epistemologia rimane legata al determinismo. La riduzione della complessità, infatti, del rapporto tra il maschile e il femminile all’interno di categorie comporta il permanere degli stereotipi di genere poiché, da un lato, il ridurre, il classificare inevitabilmente comporta la fissazione cognitiva che non consente di approfondire la conoscenza della realtà e che perdura staticamente nel tempo precedendo di fatto la ragione (Lippmann, 2000) e, dall’altro, cerca di cogliere la differenza senza spiegare che cos’è la differenza, soprattutto, in rapporto al suo contrario ovvero l’uguaglianza. Per Ferrajoli (1993) l’uguaglianza e la differenzazione non sono alternative.
Alcuni movimenti femministi nel tentativo di affermare la parità tra il genere maschile e femminile non hanno colto che la lotta per eguaglianza è, nello stesso tempo, lotta per la differenza: “la strategia utile per garantire a tutti la vera parità di opportunità appare non la negazione o l’annullamento delle differenze, ma il loro riconoscimento e la loro valorizzazione, all’interno di condizioni sociali e culturali che non penalizzino le differenze stesse. E questo vale per tutte le diversità, non solo di genere ma anche fisiche e psichiche, di razza, di religione. Il valore principale da perseguire è la ricerca delle interconnessioni tra i diversi che mettono ognuno la loro ‘specialità’ a disposizione dell’insieme: persone differenti, consapevoli e soddisfatte del loro essere differenti, costruiscono insieme un mondo fondato sull’integrazione anziché sulla cristallizzazione delle diversità, o peggio sul loro uso a fini di potere” (Di Nuovo, 2004).
Solo cogliendo la complessità è possibile raggiungere la parità.
Cogliere la complessità significa tenere conto di tutte le variabili in gioco e il passaggio da una visione lineare a una circolare: “Gli ormoni senza dubbio, possono agire sui nostri stati mentali; ma anche gli stati mentali e gli stimoli a partenza dall’ambiente esterno possono modificare la secrezione ormonale” (Gelli, 2009, p. 110).
Conclusione Per uscire dagli stereotipi di genere nel tentativo di ritrovare le connessioni o, meglio, la struttura che li connette, dobbiamo ritornare a Platone e alla sua teoria dell’unità originaria dalla cui divisione prende origine il maschile e il femminile: “dopo che l’originaria natura umana fu divisa in due, ciascuna metà, desiderando fortemente l’altra metà che era sua, tendeva a raggiungerla”.
La complessità risiede, allora, nel rapporto, nell’interazione tra cultura, intesa come luogo dei miti, dei simboli, dei riti, e culturale come azione dell’agire quotidiano.
La storia dell’umanità fin dai tempi antichi ha riservato percorsi differenziati ai generi maschili e femminili e, soprattutto, non ha permesso alle donne, se non in rare eccezioni, posizioni di potere. Le generazioni nel corso del tempo si sono cibate o sono state educate a mantenere lo status quo in tutti gli ambiti: da quello individuale, a quello familiare, a quello sociale. La ricerca di una uguaglianza impossibile da raggiungere non ha permesso la valorizzazione delle differenze in forza di una categorizzazione e di un determinismo che è andato alla ricerca di cause naturali o socio-culturali che giustificassero i ruoli da assumere, facendo di quest’ultimi i contenitori di caratteristiche predeterminate. Ciò ha tolto anche ai ruoli sociali la necessaria fluidità e il dinamismo necessari ai loro cambiamenti come “se l’abito facesse il monaco”.
Al contrario, oggi assistiamo, e non poteva essere altrimenti, alla gestione di ruoli che sono da sempre stati considerati maschili, da parte di donne che non hanno rinunciato alla loro femminilità. Il cambiamento, infatti, passa attraverso la valorizzazione della “diversità” che non è un limite ma costituisce la necessaria ricchezza insita nella molteplicità e nella complessità. I riduttivismi, non solo sociali , ma sopratutto scientifici: non cogliendo la complessità tendono a racchiudere l’esperienza umana all’interno di categorie che comportano la nascita di stereotipi che, nello specifico, hanno relegato la donna in ambiti che i maschi non volevano o non sapevano occupare.
L’incontro tra i due generi può avvenire solo attraverso la valorizzazione delle rispettive caratteristiche e, soprattutto, attraverso la disponibilità a perdere in termini di caratteristiche individuali per favorire la nascita di un “noi” che renda ambedue i partecipanti protagonisti.
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