a cura del Prof. Mariano Indelicato , Psicologo – Psicoterapeuta , Docente a.c. Università degli Studi di Messina, Presidente Pronto Soccorso Psicologico Italia
Nel tentativo di dare una base epistemologica e metodologica agli interventi svolti all’interno dei servizi di Pronto Soccorso Psicologico, vengono analizzati i modelli statunitensi ed europei riguardo all’efficacia degli interventi terapeutici, in particolare quelli brevi. Ad un modello di revisione basato sull’ ESTs (Empirically Supported Treatments), proveniente d’oltre oceano, si contrappone un modello europeo che affonda le sue radici all’interno dell’ antropologia, della psicoanalisi, e della clinica sistemico-famigliare. Il cambiamento, come sollievo dai sintomi, è il presupposto fondamentale di ogni tipo d’intervento clinico che, a parere dell’autore, può essere ottenuto se si entra dentro i complessi significati simbolici della storia sintomatologica del paziente. Epistemologicamente, all’interno dell’intervento clinico proposto, si deve far riferimento alle teorie di Maturana, di Varela, di Bateson, etc., e al ruolo dei simboli, dei miti e dei rituali presenti in ogni contesto culturale. L’utilizzo del linguaggio metaforico diventa il nucleo dell’intervento clinico. Anche il tempo assume un significato metaforico poiché esso deve essere misurato attraverso il cambiamento: quanto deve durare un intervento clinico? Il tempo necessario affinchè la sintomatologia possa essere letta in contesti culturali multipli.
EFFICACIA ED EFFICIENZA DELLA PSICOTERAPIA
In quasi tutto il mondo scientifico a partire dalla seconda metà del secolo scorso si è assistito ad un aumentato interesse per le terapie brevi. Le domande che si sono poste tutti i ricercatori erano legate all’efficacia e all’efficienza delle psicoterapie e, in particolar modo, alla loro durata. Mutuando un metodo di ricerca che era stato sviluppato in medicina, EBM (evidence based medicine), si è formata una corrente di pensiero, in particolare negli Stati Uniti, denominata Empirically Supported Treatments (ESTs), che raccogliendo i favori dell’APA (American Psychological Association) sfociò in una “Task Force on Promotion and Dissemination of Psychological Procedures of Division 12 (Clinical Psychology)”. Il compito della suddetta task force era quello di identificare i trattamenti che avessero una evidenza clinica ed empirica valida ai fini del trattamento di varie patologie.
I ricercatori in effetti, nel loro rapporto del 1995, individuarono 25 trattamenti (Dianne L. Chambless, Dr. Chambless, 1995), portati a 71 nel 1998, che rispondessero ai criteri indicati dal metodo ESTs (Chambless & Ollendick, 2001; Herbert, 2003). L’ESTs nasce, per determinare i costi delle psicoterapie e, in particolare, per avere tempi certi sul trattamento da eseguire per i vari disturbi. Malgrado nelle raccomandazioni preliminari allo studio si legge che “l’elenco ha lo scopo di facilitare l’identificazione dei trattamenti con una base scientifica. Esso lungi dall’essere completo e non dovrebbe essere utilizzato come base per le decisioni dei trattamenti rimborsabili da soggetti terzi pagatori” (Dianne L. Chambless, Dr. Chambless, 1995).
Tuttavia altri autori e studiosi hanno basato le loro critiche proprio su questo punto . Ad esempio, L. E. Beutler (1998) in un suo articolo, già dal titolo abbastanza esplicativo “Identificare i trattamenti supportati empiricamente: e se non lo avessimo fatto?” afferma che “Il rapporto della Task Force è stata una risposta a un’intensa attività di forze economiche e politiche che chiedevano di sapere quali delle oltre 400 psicoterapie erano efficaci. La Task Force ha risposto in maniera semplice e diretta: ha identificato una serie di criteri e si è messa in moto per determinare quale delle molte procedure psicologiche praticate fosse conforme a questi criteri. Ha affermato che questi erano gli unici trattamenti efficaci, che questi trattamenti dovrebbero avere la precedenza sugli altri, e che quell’elenco era finito e immutabile”. In effetti, l’orientamento della task force era fortemente influenzato dal modello sanitario statunitense ed anglo sassone in generale in cui la privatizzazione dei servizi richiede tempi e costi certi. Così come ci informa ancora Beutler sul lavoro della task force si sollevarono una serie di voci critiche che lui stesso riassume nei seguenti punti:
un numero esiguo e non rappresentativo di studi ha costituito la base della revisione;
i criteri restrittivi rappresentavano in modo errato l’ampia gamma di risultati della ricerca;
affidamento eccessivo su studi che hanno utilizzato terapie manuali e l’assegnazione casuale ha portato a conclusioni imprecise sulla natura della psicoterapia e sui suoi effetti;
le raccomandazioni rischiavano di essere utilizzati in modo improprio sia dall’assistenza sanitaria gestita (MHC) e dagli istituti di formazione per limitare la pratica, la formazione o il rimborso alle terapie preferite dagli accademici;
qualsiasi conclusione oltre a quella generale sull’efficacia della psicoterapia generica è prematura.
Ai fini della metodologia utilizzata dal pronto soccorso psicologico Italia assume rilevanza soprattutto l’ultimo punto e, in particolare, il concetto di efficacia. Infatti, quasi tutti gli studi e le ricerche sulla psicoterapia si sono concentrate sull’efficacia della psicoterapia tralasciando, spesso, l’efficienza terapeutica.
Saul Rosenzweig (1936) sembrava aver risolto il dilemma attraverso il famoso “verdetto di Dodo” per cui, al di là degli orientamenti teorici, a produrre il cambiamento in psicoterapia erano una serie di elementi aspecifici comuni, invece, a tutti gli orientamenti terapeutici. Sebbene, la scoperta di Rosenzweig sembrava aver risolto il problema, al contrario ha dato vita ad un acceso dibattito all’interno della ricerca sulla efficacia e sull’efficienza della psicoterapia. Come abbiamo visto sopra si sono susseguiti tutta una serie di ricerche, commissionate dall’APA, volte a determinare i fattori specifici e aspecifici in grado di determinare gli outcome dei vari orientamenti psicoterapici. In sostanza, gli studi sulla evidence based sono orientati a determinare l’efficacia degli interventi terapeutici con l’utilizzo dei fattori specifici insiti nelle metodologie dei vari orientamenti terapeutici. Altri studi e ricerche, invece, hanno attivamente ricercato l’efficienza terapeutica attraverso l’individuazione dei fattori aspecifici.
Il RUOLO DEI FATTORI ASPECIFICI
Basta citare a questo proposito gli studi di Norcross [1](2001) che per la prima volta prendono in considerazione, non tanto i fattori specifici di un trattamento, ma un fattore aspecifico come la relazione terapeutica. Infatti, prendendo a prestito la definizione di Gelso e Carter (1985 – 1984) i ricercatori del gruppo definiscono la relazione terapeutica come “i sentimenti e gli atteggiamenti che il terapeuta e il cliente hanno l’uno verso l’altro e il modo in cui questi sono espressi” e si sono chiesti quali elementi includere ed escludere che contraddistinguono la suddetta particolare relazione. Gli elementi che hanno incluso sono l’alleanza nella terapia individuale e la coesione in quella di gruppo. Inoltre, hanno inserito anche gli elementi facilitatori così come individuati da Rogers (1951) ovvero empatia, considerazione positiva e genuinità.
Tutti questi elementi sono stati studiati all’interno di orientamenti terapeutici relazionali facendo riferimento anche alle tecniche utilizzate. Le conclusioni a cui sono giunti è che tutti i fattori aspecifici individuati influiscono in maniera determinate sull’efficacia della terapia insieme alle tecniche terapeutiche utilizzate. Per il gruppo di studio tecniche e relazione coincidono ai fini dell’efficacia dell’intervento in quanto “Il rapporto non esiste al di fuori di ciò che fa il terapeuta in termini di tecnica, e non possiamo immaginarne nessuna tecnica che non avrebbe alcun rapporto impatto relazionale. In altre parole, le tecniche e gli interventi sono atti relazionali”.
Particolare rilevanza per la definizione del costrutto della relazione terapeutica assumono gli studi di Gelso, cosi come riportati da Lo Coco, Gullo, Prestano e Gelso (2011), sugli elementi che lo compongono. Gelso , infatti, analizza la relazione terapeutica all’interno di un modello tripartito i cui elementi sono: l’alleanza di lavoro, il transfert e il contro -transfert, la relazione reale.
L’alleanza di lavoro e/o alleanza terapeutica è costituita da tre componenti:
l’esplicita condivisione di obiettivi da parte di paziente e terapeuta;
la chiara definizione di compiti reciproci all’inizio del trattamento;
il tipo di legame affettivo che si costituisce fra i due, caratterizzato da fiducia e rispetto (Bordin, 1979).
Molti studi e ricerche, oltre a quelli citati di Norcross del gruppo della task force della divisione 29 dell’APA, indicano che l’alleanza terapeutica sia un fattore predittivo del successo e dell’insuccesso delle psicoterapie ( Horvath & Symonds, 1991; Martin, Garske & Davis, 2000). Lo stesso Norcross (2011), insieme a Lingiardi (2002), Safran, Muran (2000) reputano che l’alleanza terapeutica sia dal punto di vista gerarchico il primo è più importante elemento della relazione terapeutica. Horvath & Symonds (1991) e Martin, Garske & Davis, (2000) nei loro studi di meta – analisi hanno dimostrato che l’alleanza terapeutica sia il più importante predittore sull’efficacia della psicoterapia. L’orientamento cognitivo evoluzionista ritiene che l’alleanza terapeutica si fonda sulla cooperazione di entrambi i membri della diade terapeutica nel perseguire gli obiettivi condivisi al fine di attivare un sistema motivazionale cooperativo basato su un legame affettivo basato sulla fiducia e sul rispetto. Finn, nell’ambito dell’assessment collaborativo, fa dell’alleanza terapeutica l’elemento centrale dell’intervento terapeutico. Infatti, la parola chiave dell’orientamento è “collaborazione” nel senso di condivisione e negoziazione di tutte le informazioni e le ipotesi diagnostiche in cui il paziente è un agente attivo che collabora al processo di comprensione del suo funzionamento discutendo:
i motivi della consultazione,
Il clima emotivo,
I risultati dei test,
l’interpretazione degli stessi.
Il processo collaborativo si concentra sull’identificazione degli schemi di sé e dell’altro con l’obiettivo principale di riformularli “Riscrivendo/ridefinendo la storia personale del paziente”.
Sull’importanza del transfert e del controtransfert, in psicodinamica, sono statti scritti vari volumi di letteratura e sicuramente sappiamo che sono dei predittori sulla efficacia della psicoterapia. Per meglio dire il processo transferale e contro transferale costituisce il nucleo dell’intervento terapeutico.
La stessa cosa non si può dire, al contrario, della relazione reale che, invece, è stata poco studiata. Lo Coco, Gullo, Prestano e Gelso (2011) riportano 3 ricerche che sono state svolte nel corso del tempo sul ruolo della relazione reale ai fini dell’efficacia sul processo terapeutico:
Fuertes et al. (2007) che hanno messo a confronto le valutazioni del terapeuta e del cliente sulla forza della relazione reale associati ai progressi, intesi come cambiamenti avvenuti, nella psicoterapia in corso;
Marmarosh et al. (2009) che hanno misurato la correlazione tra la valutazione della forza della relazione reale dei terapisti nell’ambito di una psicoterapia breve con quella dei clienti;
Ain e Gelso (2008) i quali hanno correlato le valutazioni retrospettive dell’efficacia della terapia con la percezione della forza dei rapporti reali che avevano stabilito con i loro terapeuti.
Cosa si intende, comunque, con relazione reale? Qual è la sua definizione? Per Gelso (2009), come riportato dagli stessi autori, la relazione reale è “il rapporto personale esistente tra due o più persone che riflette il grado in cui ciascuno è genuino con l’altro e percepisce e sperimenta l’altro in modi che si addicono all’ altro”. Secondo questa definizione i due elementi fondamentali della relazione sono: genuinità e realismo.
“La genuinità può essere vista come il grado di autenticità reciproca dei partecipanti, mentre l’elemento realismo implica esperienze e percezioni che “si addicono all’altro”, piuttosto che percezioni imprecise o distorte che potrebbero essere dovute a conflitti irrisolti in precedenza”. Altro fattore essenziale della relazione reale è che essa si instaura sin dal primo contatto tra terapeuta e paziente e, per questa sua caratteristica, differisce dall’alleanza terapeutica in quanto è indipendente dal rapporto di collaborazione ed, invece, “riflette il personale collegamento tra terapeuta e cliente” (Gelso, 2009). Lo Coco, Gullo, Prestano e Gelso (2011) hanno misurato la correlazione esistente: tra l’associazione della forza della relazione reale valutata dal cliente e dal terapeuta con il risultato di una psicoterapia breve e la misura in cui la relazione reale prediceva il risultato di cui sopra e al di là del potere predittivo dell’alleanza di lavoro. Nello studio svolto sulla valutazione di una serie di psicoterapie brevi, svolte presso il servizio di consulenza dell’Università di Palermo, hanno riscontrato che, dal punto di vista dei pazienti, rispetto alla genuinità la relazione reale e l’alleanza di lavoro erano correlati in modo significativo all’esito del trattamento e che il rapporto reale e l’alleanza di lavoro sono predittori, in un formato di regressione gerarchica, del risultato terapeutico.
Da questi studi si evince che la ricerca dei fattori aspecifici è volta ad identificare i fattori che, al contrario di quanto avvenuto con gli studi di evidence based, volti alla semplice remissione del sintomo, determinano il cambiamento.
IL CAMBIAMENTO
Sempre Norcross (2010), analizzando il modello transteoretico, analizza le fasi del processo di cambiamento in modo da poterle adattare al trattamento terapeutico. Il cambiamento viene inteso come sollievo dai sintomi, abbandono della terapia e alleanza di lavoro. A suo parere basterebbe, per ottenere risultati migliori, delle semplici riflessioni inziali che individua:
Nel valutare la fase di cambiamento ovvero sondare la disponibilità del cliente a cambiare;
Nel non trattare i pazienti come se fossero tutti in azione. Al contrario, i pazienti non sono sempre disponibili all’azione. Citando Velicer et alt. (1995) si stima che il 40% dei pazienti sia in pre-contemplazione, il 40% in contemplazione e solo il 20% in azione;
Nello stabilire obiettivi realistici congruenti con la fase in cui si trova il paziente. Ad esempio, un obiettivo realistico per il paziente è passare dalla fase di pre-conteplazione a quello della contemplazione. Ciò significherebbe che il paziente in una determinata fase non concepisce il cambiamento o ha timore del cambiamento ed in un’altra inizierebbe a prenderlo in considerazione;
Trattare i pazienti in pre-contemplazione con cautela poiché spesso sopravvalutano i contro e sottovalutano i pro al cambiamento. Imporre a questi pazienti un’azione significherebbe allontanarli dalla terapia e spingerli verso l’abbandono;
Nell’adattare i processi alle fasi. Per progredire in maniera ottimale i pazienti devono passare dalla fase di pre-contemplazione, alla contemplazione e, infine, all’azione attraverso l’aumento della consapevolezza, l’auto-liberazione e il sollievo drammatico / eccitazione emotiva.
L’evitare fasi e processi non corrispondenti. In sostanza senza la presa di consapevolezza, senza acquisire il significato che il sintomo assume nel contesto relazionale del paziente. Gli errori che possono essere commessi sono che, ad esempio, nel frattempo che il paziente è pronto all’azione si insiste ancora nella presa di consapevolezza cosi come spesso accade in psicoanalisi o, al contrario, come più volte detto, passare all’azione attraverso tecniche di condizionamento o esposizione senza la necessaria presa di consapevolezza;
Prescrivere relazioni di scelta abbinate allo stadio e trattamenti di scelta. Si tratta di proporre relazioni adeguate alla fase in cui si trova il paziente. Lo stesso Norcross consiglia, come esempio, a proposito di corrispondenze relazionali, di proporre un ruolo di genitore educativo ad un pre – contemplatore, uno socratico ad un contemplatore, un allenatore esperto ad uno pronto all’azione;
Nell’anticipare il riciclaggio. Se si pensa che il processo terapeutico sia una strada totalmente in discesa si è lontani dalla realtà. Il processo terapeutico, invece, si contraddistingue per essere spesso un terreno avvallato in cui sono sempre possibili le ricadute che devono essere messe in conto e, in qualche modo, seguite attentamente.
Chiaramente come chiarito da Wampold (2012) non bastano le definizioni di Norcross per definire il suddetto processo. Riprendendo J. FranK (1993), identifica cinque fattori necessari e sufficienti nel produrre un cambiamento:
un legame forte e emotivamente connotato tra paziente e curante;
un setting di cura riservato e adeguato;
un terapeuta che offra una spiegazione di carattere psicologico e culturalmente coerente dell’origine del disturbo emotivo;
una spiegazione adattiva e accettabile per il paziente;
una serie di procedure che conducano il paziente a comportarsi in modo più adattivo, utile e positivo
Il cambiamento in psicoterapia e negli interventi psicologici diventa la parola chiave ai fini dell’efficacia terapeutica. Tutto il lavoro di studio e di ricerca sulla efficacia e sull’efficienza di fatto può essere sintetizzato attraverso il paradigma del cambiamento ovvero come si produce il cambiamento e attraverso quali procedure e metodologie si attua. Qualsiasi progetto terapeutico se non fosse rivolto al cambiamento non avrebbe senso. I fattori specifici e aspecifici che abbiamo elencato sono necessari al fine di stabilire la relazione terapeutica che deve essere orientata verso il cambiamento. D’altronde, il paziente chiede aiuto al fine di uscire da una condizione disagio e ciò diventa possibile solo ed esclusivamente se avviene un cambiamento di stato. Ecco perché la parola chiave dell’intervento terapeutico è efficienza e non efficacia. Si possono produrre metodi efficaci che se non diventano efficienti restano sterili e fini a sé stessi. Questa è la grande differenza, ad esempio nelle terapie brevi, tra gli studi e i metodi pianificati nel mondo anglo sassone tutti volti alla ricerca dell’efficacia e la tradizione europea ed italiana, in particolare, attraverso la scuola di Milano di M. Selvini Palazzoli, L. Boscolo, G. Cecchin, G. Prata, S. Sorrentino, maggiormente sensibili ad un approccio costruttivista che trova i suoi riscontri nella cibernetica e nelle teorie della comunicazione e negli studi e teorizzazioni di Maturana e Varela e, quindi, volto alla ricerca dell’efficienza.
Maturana e Varela (1985;1987), infatti, introducono il concetto di “interazione non istruttiva” in cui, “essendo ogni sistema vivente per definizione chiuso all’ambiente e distinto rispetto ad esso, le interazioni con altri sistemi non possono indurre cambiamenti diretti, ma solo perturbazioni a cui ciascun sistema risponde secondo la sua struttura , condizionata dalla storia della sua organizzazione” (G. Manfrida, 2003). Da questi paradigmi discendono anche gli studi del modello relazionale-simbolico e del famigliare messo a punto da V. Cigoli ed E. Scabini. E’ proprio a Cigoli (2006) dobbiamo una definizione secondo cui “la clinica non corrisponde con la psicoterapia. Quest’ultima è piuttosto una sua espressione il cui rilievo per l’azione di cura è di tutta evidenza, ma che a volte viene enfatizzato. Vi sono ambiti dell’azione di cura psichica che mettono a dura prova la nostra capacità di clinici di saper affrontare e poi tessere il filo della relazione con l’altro ………… è la relazione a curare, anche se proprio lì, e non di rado, si situano gravi e persistenti dolori”.
LE BASI EPISTEMOLOGICHE
E’ in questi approcci che il psp Italia costruisce la sua epistemologia e metodologia d’intervento. Il significato simbolico del sintomo diventa il cuore dell’intervento senza dimenticare tutti gli studi che riguardono l’efficacia per quanto riguarda le metodologie operative.
Lavorare sulla simbologia del sintomo non vuol dire non tenere conto degli aspetti che riguardano la relazione terapeutica e i concetti ad essa collegati, cosi come non vuol dire non tenere conto che il processo terapeutico è volto al cambiamento. Relazione terapeutica e cambiamento, comunque, devono essere inseriti all’interno di una epistemologia che guarda verso i contesti culturali e le complesse relazioni tra l’individuo e il suo sistema relazionale. Inoltre, prendendo spunto dall’orientamento relazionale simbolico individuale, sistema relazionale di riferimento, cultura devono essere visti e analizzati come un “corpo” , secondo la definizione di Cigoli, e/o di “anima”, secondo la definizione di Indelicato (2019). L’individuo vive in un mondo di legami che “permette alle persone di incorporarsi e di essere riconosciute …….. il corpo comunitario si incarna nel nome della tribù con la quale i singoli membri identificano se stessi e fondano l’umanità distinguendosi dalle altre tribù. Sia le tribù, sia i clan, sia i popoli attribuiscono facilmente a se stessi “l’essere uomini” e agli altri di non esserlo, o esserlo solo in parte. La tragedia che nasce da tale scissione è tutt’affatto che cosa di altri tempi, riproducendosi perennemente nella comunità degli uomini” (Cigoli, 2006). In sostanza, il corpo è la rappresentazione mentale che i singoli membri hanno dei loro legami e delle loro relazioni ed in cui inseriscono la loro storia che si muove “nel registro del bisogno, dell’attesa, del desiderio e ne assume i colori”.
IL CONTESTO TRA CULTURA E CULTURALE
E’ impossibile leggere le storie individuali al di fuori della loro storia relazionale e/o dei sistemi di riferimento in cui sono inseriti. Bateson (1975) afferma che “senza l’identificazione del contesto non si può capire nulla, l’azione osservata è del tutto priva di senso finché non viene classificata come – gioco, minaccia o quant’altro. Il contesto è la matrice dei significati”. La storia individuale, in termini gestaltici, costituisce la figura che risalta da uno sfondo. Figura e sfondo sono strettamente legati in quanto perderebbero di significato in assenza dell’una o dell’altra: la figura viene messa alla ribalta dallo sfondo e lo sfondo è tale solo in presenza della figura. Allo stesso modo il contesto è lo sfondo in cui risalta la storia individuale che attinge e assume significati all’interno di quel contesto. V. Ugazio (1998), riprendendo le teorie di Bateson, introduce il concetto di soggetto contestuale in cui la costruzione della personalità è il frutto dell’interconnessione relazionale tra individui e gruppi. Indelicato ( 2019) nel mettere l’accento sulla interazione tra figura e sfondo, individua, attraverso il concetto di “anima”, il rapporto tra storia individuale e cultura. A tal proposito, facendo riferimento al concetto di anima universale di Plotino, individua nella cultura il contesto dove risiedono i significanti che danno senso alle storie individuali che egli identifica nel culturale: “il riconoscersi, la costruzione o la percezione dell’identità, l’appartenere sono da riferire “al luogo dell’altro” che altro non è che uno spazio simbolico determinato dalla cultura”. La cultura è “uno strumento biologico perché è il prodotto dell’attività encefalica; senza di essa la specie umana non avrebbe potuto sopravvivere; nelle sue espressioni però ha assunto significati e dimensioni tali che l’uomo non si accorge di usarla e quindi l’assume come sua natura al punto da non riconoscerla e da non poterla pensare in forme diverse” ( Ida Magli 1982). Il culturale, da un lato, è antro- poietico nella misura in cui tende ad inserire l’essere biologico nella cultura e, dall’altro, è poietico perché riproduce, nel senso etimologico del termine, in maniera creativa. E’ questa caratteristica che fa sì che la cultura è dinamica e si evolve. Ogni nuovo evento viene analizzato ed elaborato nel culturale per poi passare nella cultura (Indelicato, 2019).
Il rapporto terapeutico, la relazione terapeutica non sfugge a queste dimensioni: essa si svolge all’interno del culturale trovando i suoi significati profondi all’interno della cultura. Qualsiasi storia, narrazione, come qualsiasi sintomo esprime ed è portatore di valori simbolici che trovano espressione all’interno del suo contesto di riferimento. Compito del terapeuta è inserire la storia del paziente all’interno di una meta-analisi simbolica. Andolfi (1987), riprendendo Bateson (1979), sostiene che ciò che l’individuo apprende sono determinati contesti in cui i fatti e gli oggetti vengono collocati, e che l’apprendimento più complicato da realizzare è quello “di un contesto dei contesti”, “del contesto, cioè, che permette di comprendere i vari contesti”.
SIMBOLI, RITUALI E MITO
In questo modo il processo terapeutico assume i valori della sacralità: il simbolo (syum-bàllo) significa “mettere insieme” sia nel senso di stipulare un accordo che di unire. Indelicato (2019) sostiene che il processo di simbolizzazione e/o di significazione della relazione terapeutica e delle storie dei pazienti trovano riscontro nel convivio di Platone il quale sosteneva che ogni uomo è simbolo giacché “tessera dell’uomo totale…tensione verso una totalità assente, ma richiamata dall’incompiutezza di senso della situazione presente“ . Lo stesso Platone, come riportato da Jung (1926), nella ricerca dei significati simbolici e nel tentativo di dare un senso al simbolo, sostiene che quest’ultimo va “dal senso presente ad una ulteriore partecipazione di senso a cui l’incompiutezza del senso presente rinvia”. Spesso i pazienti arrivano in terapia ipotizzando e pensando che la loro storia e le loro relazioni siano prive di un senso compiuto ed a volte, come nella depressione, che la loro stessa esistenza non ha un senso. E’ all’interno del processo terapeutico che devono riscoprire i significati e le difficoltà che i loro sintomi esprimono. Lo stesso Jung, come riportato da Indelicato (2019), scrive “Un simbolo non abbraccia e non spiega, ma accenna, al di là di se stesso, a un significato ancora trascendente, inconcepibile, oscuramente intuito, che le parole del nostro attuale linguaggio non potrebbero adeguatamente esprimere”. Freud (1917) ritiene che i simboli precedono il linguaggio e sono una idea immaginaria e visiva attraverso la quale si esprime l’inconscio. Letteralmente egli sostiene che “La relazione simbolica, mai insegnata al singolo ha i requisiti per venire considerata un’eredità filogenetica. Nelle successive fasi dello sviluppo i simboli tendono ad emergere come associati a idee rimosse, soprattutto, sul piano sessuale”.
E’ per i suddetti motivi che nella metodologia terapeutica utilizzata all’interno del psp l’utilizzo del linguaggio visivo e metaforico assume un ruolo preminente in quanto esso da significazione sia all’interno del culturale (Freud) che della cultura (Jung). Infatti, uno dei maggiori contrasti tra Jung e Freud riguarda la concezione dei simboli: per Jung i simboli indicati da Freud non sono altro che segni poiché vengono associati per l’appunto ad un vissuto di cui l’individuo ha avuto coscienza e che è stato rimosso. Il simbolo appartiene, invece, all’inconscio collettivo ovvero all’intero universo e non al singolo individuo (Indelicato, 2019).
Altra importante caratteristica da tenere presente nel processo terapeutico cosi come concepito dal psp Italia, direttamente collegato al simbolo, è il rito e/o rituale. Kerzer (1988) sostiene che “non si dà rituale senza simboli e/o, al contrario, il simbolo, per il suo esplicarsi, ha bisogno del rituale. Tra l’altro il rito è sempre di ordine simbolico in quanto evocatore di significati individuali e/o collettivi”. Indelicato (2019) afferma che “I rituali occupano quasi l’intera giornata: basti pensare, ad esempio, all’organizzazione dello spazio e del tempo, all’organizzazione del lavoro, del tempo libero, etc. I rituali riguardano anche le modalità con cui svolgiamo i compiti quotidiani come pulire, pulirsi, mangiare, etc. La colazione, il pranzo, la cena nel nostro sistema sociale sono momenti rituali che acquistano valore simbolico: è il momento in cui la famiglia si riunisce. E non solo, i posti a tavola sono predeterminati ed esprimono in maniera chiara le relazioni interne al sistema familiare. I clinici che si occupano di famiglia conoscono bene i significati della prossemica all’interno dello spazio terapeutico. Il pranzo della domenica e/o delle feste raccomandate a casa dei nonni in cui le generazioni si riuniscono è un rituale a forte valenza simbolica. Invitare a pranzo e/o a cena è un modo sia per dimostrare amicizia e gradimento sia per instaurare nuove amicizie: per creare un legame”. Se l’organizzazione giornaliera prevede rituali anche i sintomi e/o le modalità di espressione sono organizzate in maniera ritualistica e sono espressione di un significato simbolico. E’ all’interno del processo terapeutico che bisogna trovare le connessioni tra rituale e simboli sottostanti in modo da inserire la storia sintomatica all’interno di un senso compiuto.
In generale, inoltre, all’interno di questa concezione rituale e simbolo richiamano il mito sottostante per cui dare significazione al rituale – simbolico dei sintomi vuol dire inserire i vissuti patologici in un contesto mitico che sicuramente non fa sentire solo il paziente. Al contrario, la sua sofferenza ha un valore sacro cosi come avveniva nei rituali sacrificali di antica memoria. In tal modo, il paziente da vittima sacrificale diventa protagonista di una missione salvifica. Basta dare questa ridefinizione positiva della storia per contenere la sofferenza emotiva collegata ai vissuti sintomatici. I miti, i vissuti mitici da sempre sono collegati con la sacralità.
Con la sacralità ciò che viene messo in scena è il rapporto tra gli uomini ed una entità superiore. Galimberti (2006) sostiene che “sacro è una parola indoeuropea che noi traduciamo con “separato” e fa riferimento alla potenza che gli uomini hanno avvertito come superiore a loro e perciò collocata in uno scenario “altro” a cui hanno dato il nome di sacro, successivamente di “divino”. In questo scenario Dio è arrivato con molto, molto, molto ritardo”. Per lo stesso autore Il sacro è il luogo dell’indefferenziato, dell’ambivalenza, dell’indeterminatezza, dell’artistico. E’ il luogo dell’indifferenziato poiché le definizioni sono delle convenzioni che permettono di trovare significati univoci e convenzionali agli oggetti in modo, da un lato, di “ridurre l’angoscia e rendere prevedibili i comportamenti” e, dall’altro, consentire “di nominare le cose secondo un significato universale”. Il definire, il differenziare è tipico dell’attività della ragione che si difende dal non conosciuto, dalla non prevedibilità. Noi abbiamo l’esigenza di catalogare le cose e i comportamenti per evitare l’imprevedibilità che è tipica della follia. Ciò vuol dire che nell’area sacrale le cose possono assumere mille e più significazioni. Egli presume che la follia è il costitutivo dell’uomo nella sua singolarità. La ragione serve semplicemente per vivere esperienze con significati condivisi, ma essa collassa nel momento in cui ci ritroviamo a confrontarci con l’ambivalenza del nostro pensiero o nei sogni. E’ in questi momenti che viviamo l’esperienza del simbolico e del sacro. La stessa esperienza la viviamo nell’atto artistico e nella poesia attraverso le quali comunichiamo l’eccedenza di significati dal punto di vista semeiotico e trasmettiamo l’essere in comunione, attraverso i simboli, con il sacro (Indelicato 2019).
Gli studiosi sono quasi tutti d’accordo nell’affermare che il mito ci mette in contatto con l’ambivalenza con cui spesso i terapeuti si confrontano all’interno della stanza di terapia. E’ nello spazio intersoggettivo, nello spazio “altro”, che ci confrontiamo con il conflitto tra desiderio ed esigenze razionali, tra il principio di realtà e il principio di piacere. E’ nell’ambivalenza del mito che questo conflitto trova la sua risoluzione che spesso si esprime attraverso i comportamenti sintomatici. L. Kolakowski (1927), sostiene che il mito è fondamento “infondato” poiché non può essere compreso all’interno delle categorie razionali o scientifiche senza il rischio di trasformarlo in dottrina. Piuttosto, esso dà un senso alla storia individuale, comunitaria, alla logica, alla conoscenza pratica rispondendo all’assurdità del mondo che rimanda sempre al niente, al disorientamento cui ci espone l’esperienza pratica. Moretti (1986) afferma che “incontrare il mito significa abbandonarsi a un’esperienza fortemente antiumanistica nel senso che in questo incontro (destinale) l’uomo non potrà più illudersi di dominare con uno sguardo razionale l’evento”. Cometa (1984, 1985, 1989) mette in risalto che “Le mitologie vengono ….. intese come quel repertorio di fabulae in cui si annidano e si conservano i sogni, le speranze e le utopie dell’umanità. Il loro senso non sta dunque in un’improponibile verità altra ma proprio nell’altro della verità, in quella regio dissimilitudinis in cui il non-razionale convive accanto alla ragione”. Indelicato (2019) facendo riferimento alle suddette definizioni sostiene che “in quest’ottica il mito, fautore di uno scambio comunicativo tra cultura e culturale, da senso al legame poiché esso trova i suoi riferimenti simbolici all’interno della condivisione e per fare ciò dà significazione al donare come rituale per lo scambio relazionale. La cultura dà senso all’esperienza dell’uomo permettendogli di trovare attraverso i miti, i simboli e i rituali (il culturale) significati condivisi che danno senso alla sua storia quotidiana. A sua volta, la cultura non è uno sfondo immutabile ma sotto la spinta del culturale si adatta alla storia ed evolve con essa. All’interno di questa grande storia il soggetto può narrare la sua storia individuale e di gruppo. Senza la cultura, l’uomo sarebbe costretto a vivere nel niente, nel vuoto, nell’assenza. Senza la cultura non potrebbe riconoscersi, differenziarsi, diventare soggetto, trasformarsi da essere biologico in essere culturale”.
Per questo motivo la metodologia del psp Italia è basata sulla narrazione poiché come sostenuto da Bruner (1992) “è uno degli strumenti più preziosi a livello culturale, in quanto attraverso i racconti è possibile negoziare significati comuni e veicolarli fin dalla più tenera età e in modo piacevole. Questo aumenterebbe la coesione del gruppo e la reiterazione del sistema di valori e credenze” e, ancora, che l’essere umano ha una “attitudine o predisposizione a organizzare l’esperienza in forma narrativa” poiché sente il “bisogno di ricostruire la realtà dandogli un significato specifico a livello temporale o culturale”. La narrazione travalica il racconto poiché ci fa entrare in contatto diretto con il mito, con i simboli, con la legenda, con la fiaba, con le novelle popolari, con l’epica, con la tragedia, con la commedia, con la pittura, etc. Ancora Bruner sostiene che “la vita stessa è narrazione in quanto storia”. E’ attraverso la narrazione che possiamo trovare i significati simbolici che si nascondono dietro i sintomi. E’ attraverso la ri-narrazione che la diade terapeuta-paziente dando significazione emotiva al vissuto del paziente lo colloca all’interno del sistema mitico. Il cambiamento, allora, diventa funzione del passaggio dal piano della razionalità a quello emotivo. La narrazione, da un lato, da significazione al mito e, dall’altro, trae origine da esso.
IL TEMPO
Se come sostiene Bruner la vita è narrazione in quanto storia essa si inserisce in un tempo. Credo che riprendendo una definizione sul tempo di Sant’Agostino nel libro XI delle Confessioni “in cui il presente è memoria del passato ed il futuro è l’attesa, ciò che deve avvenire. Noi possiamo vivere il presente solo conoscendo il passato e, quindi, poter sperimentare il senso dell’attesa ovvero proiettarci nel futuro” possiamo contestualizzare l’intervento terapeutico. Il tempo del processo terapeutico è quello dell’attesa in cui si analizza il presente, frutto delle esperienze passate, per poterlo proiettare nel futuro. Per tale motivo il psp italia ha scelto come metodologia d’intervento la narrazione che permette di analizzare il presente pieno di significazione passate per ricontestualizzarlo attraverso la ri-narazione.
In questo processo il primo tempo è quello della richiesta di un intervento terapeutico: come mai oggi e non ieri o domani o un anno fa? Rispondere a questa prima domanda significa comprendere sia le attese che si nascondono dietro la richiesta sia quando la disfunzionalità è diventata talmente ingestibile per lo stesso paziente o per le persone che le sono accanto. Il momento della richiesta deve essere attentamente attenzionato: è il tempo in cui il paziente vuole passare all’azione e, tante volte, ha deciso di cambiare. Può anche essere il tempo in cui il sintomo ha esaurito il compito di meccanismo regolatore e/o equilibratore delle relazioni familiari e sociali.
Altra domanda fondamentale è il momento in cui il sintomo si è presentato per la prima volta e in quale fase del ciclo vitale del paziente. Ogni individuo durante la sua esistenza attraversa varie fasi di ciclo vitale ed è in queste fasi che spesso il sintomo si inserisce. Haley (1963) sostiene che “sintomi compaiono quando c’è una deviazione o una interruzione del normale svolgimento del ciclo vitale di una famiglia o di un altro gruppo naturale; un sintomo è il segnale che una famiglia ha difficoltà a superare uno stadio di questo ciclo vitale”. Erikson e Haley (1976) individuano le seguenti fasi di ciclo vitale facendo particolare riferimento alla terapia familiare:
la nascita e l’educazione del bambino;
l’adolescenza del figlio;
il periodo di corteggiamento;
il matrimonio dei figli;
le difficoltà del periodo centrale del matrimonio;
l’emancipazione dei figli dai genitori;
il pensionamento;
la vecchiaia.
Indelicato (2019), nell’ambito della terapia individuale, facendo riferimento alla sua esperienza clinica descrive le seguenti fasi di ciclo vitale:
La nascita;
L’entrata alla scuola materna come momento di confronto con l’ambiente esterno e con il mondo delle regole sociali;
Lo svincolo dalla famiglia di origine culminante con il matrimonio, con la convivenza, con l’andare a vivere da soli; in sostanza l’uscita dal nido dei genitori per andare a costruirsi il proprio nido;
Il diventare genitori come passaggio dall’essere figli all’essere papà e mamma e, quindi, ad essere sullo stesso piano dei propri genitori che a loro volta cambiano posizione diventando nonni;
Il pensionamento;
La vecchiaia.
Cancrini (2001) scrive che “Il ciclo vitale ….. deve essere integrato per completezza, tenendo conto di situazioni psicopatologiche che sviluppano all’interno di altri sistemi interpersonali”. Tra le disfunzioni che egli individua particolare rilevanza assume lo svincolo della famiglia di origine tra cui:
Svincolo impossibile: che corrisponde alle situazioni di una famiglia nella quale si verifica la presenza di una forma schizofrenia di tipo ebefrenico;
Svincolo inaccettabile: con un membro appartenente alla classificazione di schizofrenia di tipo catatonica. Lo svincolo “non avviene o avviene per brevi periodi e in settori limitati”.
Svincolo apparente: avviene in modo incompleto o parziale. A livello del soggetto troviamo le crisi di tipo schizoaffettivo: crisi maniacali e depressive; forme gravi di anoressia e di tossicomanie di tipo C.
Svincolo del compromesso: essa si determina attraverso un progetto che appartiene alla famiglia. A livello del soggetto troviamo un disturbo psicotico di personalità: schizoide o borderline; si possono presentare con forme meno gravi di tossicomanie di tipo C o anoressia vera.
La fase di svincolo dalla famiglia di origine assume particolare rilevanza all’interno delle fasi di ciclo vitale poiché come afferma Canevaro (2011) “una delle fasi più difficili nella crescita di un essere umano è il processo di autonomizzazione, elaborazione di un progetto esistenziale e inserimento creativo nella società. Distaccarci dalla organizzazione familiare che ci ha dato il nome e dalle persone con cui abbiamo accumulato migliaia e migliaia di interazioni lungo il tempo è un processo graduale che non finisce mai e che si interseca con la nostra discendenza in un movimento ciclico, auto perpetuante”. Bowen (1979), sempre a proposito dello svincolo dalla famiglia di origine, sostiene che esso “riguarda il grado di ‘differenziazione del sé’ di una persona. Il contrario della differenziazione è dato dal livello di ‘non differenziazione’ cioè di ‘fusione dell’io”.
Indelicato (2019), rifacendosi all’analisi di Vogler (2005)[2], descrive i passaggi che l’individuo deve percorrere, paragonati al viaggio iniziatico, per la conquista di un nuovo sé: “Il trasloco (dal nido di origine al nuovo nido) assume il significato e le caratteristiche del viaggio iniziatico. Nelle culture arcaiche per essere riconosciuti come adulti si devono superare delle prove. Anche in questo viaggio bisogna superare molti ostacoli per raggiungere il nuovo nido”.
La formazione della coppia, cosi come la vita matrimoniale è un’altra fase di ciclo vitale in cui si possono annidare tanti disturbi. Basta citare a tal proposito quanta clinica e metodologie sono state costruite attorno ai problemi di coppia[3].
Diventare genitori, ancora, non è semplice perché si può essere assaliti da mille dubbi e ansie eppure sappiamo che non possiamo scappare da questa fase in quanto essa assume valore antropologico per la conservazione della specie. A tal proposito basta citare quanto sostenuto da Lacan (1972) nel seminario XX nel quale “indica il luogo dell’altro nell’intersoggettività e, assumendo l’idea hegeliana, afferma che il soggetto ha bisogno dell’altro per esistere. Il luogo dell’altro è quello materno e quello paterno, ma anche quello dell’altro sesso. La madre, attraverso le cure, è il luogo del linguaggio che permette di comunicare con gli altri. Il padre invece è il luogo della legge e dell’ordine essendo “un significante in relazione con i significanti”. Lacan da grande rilievo al “Nome del Padre” poiché se esso manca non ci può essere il luogo del “grande altro”. Addirittura, sul piano clinico, ritiene che se manchi il “Nome del Padre” non ha senso mettere uno psicotico sul lettino poiché quest’ultimo, relazionandosi con un mondo immaginario, sarà costretto a confrontarsi con un buco, con un cratere, con una voragine, insomma con l’assenza del luogo dell’altro”.
Il terapeuta nella narrazione del paziente deve sempre tenere conto della fase di ciclo vitale in cui si inserisce il sintomo per utilizzare questa informazione nella ri-narrazione terapeutica che all’interno della metodologia del psp Italia viene denominata restituzione. Il tempo del terapeuta deve essere quello del paziente onde evitare distorsioni contestuali. Cosi come già sostenuto, la fase di ciclo vitale costituisce la cornice contestuale che da significazione emotiva ai sintomi. Se un sintomo si presenta in una determinata fase piuttosto che in un’altra ha un suo preciso significato che generalmente fa riferimento ai miti e alle simbologie che la descrivono all’interno dei dettami della cultura.
Un altro elemento temporale da tenere in considerazione è la fase di sviluppo evolutivo in cui si trova il paziente. La psicologia dello sviluppo indica che nelle varie fasi di vita (infanzia, pubertà, adolescenza, giovinezza, terza età) si possono annidare i disturbi, soprattutto, nelle fasi di cambiamento e passaggio possono svilupparsi varie patologie.
Il tempo, comunque, nell’ambito del processo terapeutico assume un altro valore e significato. Quanto tempo è necessario a produrre il cambiamento? A questa domanda si potrebbe semplicemente rispondere quello che basta. Eppure anche nell’ottica e nella particolarità con cui si svolge l’intervento del psp italia è una domanda che dobbiamo porci. Sopra abbiamo visto che gli autori della teoria transteoretica propongono un modello a stadi che chiaramente per poter essere attuato ha bisogno di un tempo. Gli studi sulla terapia a seduta singola indicano che la maggiore efficacia in psicoterapia si ottiene tra il primo e il terzo incontro. Gli studi di follow up sui pazienti che hanno un drop out terapeutico rispondono che la prima seduta di terapia ha risposto perfettamente alle loro richieste terapeutiche e, quindi, dobbiamo presuppore il cambiamento. Ritornando alle concezioni di Sant’Agostino sul tempo, egli ritiene che il tempo non sia un dato oggettivo ma costruito: Il passato non esiste in quanto non è più; il futuro non esiste in quanto non è ancora; e il presente attimo dopo attimo diventa passato, e se così non fosse sarebbe eternità e non presente. Quindi il tempo non esiste. Ma semplicemente il passato viene visto come memoria, il futuro come aspettativa e il presente come percezione. Sostanzialmente è il “qui ed ora” di un tempo senza tempo che da significazione alla nostra esperienza. Se volessimo riportare questa affermazione nel processo terapeutico possiamo affermare che il cambiamento avviene nel qui ed ora, nell’ambito della relazione terapeutica. Voler a tutti i costi determinare il “qui ed ora”, il volergli dare un tempo sarebbe un’operazione alquanto complicata. Il cambiamento avviene all’interno di una interazione quale la relazione terapeutica che contiene si tutti gli elementi riportati in premessa, ma si oggettivizza nel tempo presente. D’altronde il tempo come costrutto è semplicemente una categoria razionale: le emozioni, i legami non hanno tempo ma vivono nel tempo senza tempo. Come spiegarsi altrimenti i legami con l’al di là, con i nostri cari morti. Come riportato da Indelicato (2019) il tempo in qualsiasi teorizzazione sia di carattere religioso che scientifico è ciclico ovvero prevede un “prima” e un “dopo”: “ se per i credenti il mito è legato all’esistenza di Dio o di dei, per l’ateismo è la scientificità e il metodo scientifico. Ciò che li accomuna sul piano simbolico è la concezione dello spazio e del tempo. In ambedue i casi c’è un prima e c’è un dopo così come non c’è vuoto né prima né dopo”. A tal proposito riporta un’affermazione di M. Hach (2012) “Io non credo nel destino, le cose succedono e basta. Come gli epicurei, mi dico: finché ci sono io c’è la vita, quando c’è la morte non ci sono più io. Non credo nell’aldilà, non credo ci sia nulla dopo la morte. Credo che le mie molecole resteranno, l’atomo di idrogeno è praticamente immortale, ha una vita lunghissima, quindi le particelle che compongono il mio corpo sopravvivranno. Non sarò più io, le mie molecole si sparpaglieranno nell’atmosfera terrestre, serviranno a costruire altre persone, altri oggetti, chissà”.
Anche nelle narrazioni dei pazienti c’è un “prima” dell’instaurarsi dei sintomi e un “dopo”, cosi come c’è un prima dell’azione di cambiamento e un dopo. Romaioli (2009) afferma che “Il paradigma interazionista assume invece una visione “fluttuante” del processo di cambiamento: una persona cioè può conquistare molteplici consapevolezze e forme d’azione, ma può anche smentirle, riperderle e scoprirne di nuove. L’individuo potrà quindi elaborare alcune riflessioni, percezioni o preferenze rispetto all’esperienza in atto. Tuttavia, in altre fasi o momenti, quegli stessi convincimenti possono essere temporaneamente svalutati, messi in secondo piano o tradotti all’ interno di una dimensione retorica che di per sé risulta mutevole e transitoria a seconda dello spazio relazionale in cui la persona si trova inserita”. Il psp Italia lavora nel “qui ed ora” non dando indicazioni e tempi sulla durata della terapia è il paziente che sceglie, di volta in volta, se l’intervento effettuato ha soddisfatto i cambiamenti che in quel momento della sua vita è disposto a fare. Prendendo a prestito una definizione di Tomm (1998), cosi come riportato da Romaioli (2009), il psp italia “ propone come priorità terapeutica quella di modificare le coordinate simboliche che sostengono l’azione (considerata) disfunzionale in itinere in modo tale da evocare scenari o versioni di sé meglio adatte a riconfigurarla. I comportamenti e le narrazioni vissute come problematiche possono essere pertanto decostruite e ricostruite in relazione a nuovi pattern di interazione efficaci nel produrre una “forma di vita” alternativa, nel senso wittgensteiniano, che si dimostri più funzionale all’adattamento contestuale dell’agente”. Il Psp Italia, inoltre, a proposito del tempo fa sua la seguente affermazione di Romaioli (2009) “Ciò che è necessario tenere in considerazione…….. è che la persona impegnata nei contesti mette sempre in gioco le parti di sé più adatte a sostenere l’azione finalizzata e, anche nei casi in cui produce delle gravi manifestazioni di disagio, la sua “razionalità” dovrebbe essere sempre relazionata ai mezzi, ai fini e al punto di vista della persona piuttosto che di chi la osserva o la giudica dall’esterno secondo criteri normativi e moralmente preordinati”.
Al fine di mettere in atto fin quanto qui sostenuto il psp Italia, sul piano del metodo, ha suddiviso l’intervento terapeutico in tre momenti:
Accoglienza;
Normalizzazione;
restituzione
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[1] Norcorss è stato presidente e coordinatore della Task Force divisione 29 sempre dell’APA che era formata da Steven J. Ackerman , Lorna Smith Benjamin , Larry E. Beutler , Charles J. Gelso , Marvin R. Goldfried , Clara Hill, Michael J. Lambert , David E. Orlinsky , Jackson P. Rainer.
[2] Vogler, sceneggiatore di Hollyood, nel suo libro il viaggio dell’eroe analizza le sceneggiature di film, in particolare della Walt Disney, che hanno per tema l’eroe. Attraverso la suddetta analisi individua una serie di tappe che deve percorrere per vincere la sua battaglia. All’interno di queste tappe individua anche gli archetipi che inseriscono il viaggio all’interno della cultura e i personaggi principali che accompagnano l’eroe.
[3] Basta fare riferimento agli studi e alle ricerche di Scabini e Cigoli sulla famiglia e del Centro Studi di Terapia della Famiglia costituito all’interno dell’Università Cattolica di Milano.
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