A cura della Dott.ssa Vera Cantavenera, Psicologa Clinica, Coordinatrice sede Agrigento PSP-Italia
Abstract
New technologies and the consequent digital revolution that has taken place in recent years have brought about considerable improvements in human life and have radically changed the daily habits of all generations. But like everything new, especially if we talk about new immersed technologies, specifically virtual reality, which are starting to be used in clinical psychology, it raises some perplexities since it could lead to total immersion and consequent alienation from reality. We will therefore try in this article to better explain the advantages of these new technologies in clinical psychology. At the same time, we will analyze the negative implications.
Riassunto
Le nuove tecnologie e la conseguente rivoluzione digitale avvenuta negli ultimi anni hanno portato miglioramenti considerevoli nella vita dell’uomo e hanno cambiato radicalmente le abitudini quotidiane di tutte le generazioni.
Ma come ogni novità, soprattutto se parliamo delle nuove tecnologie immerse e nello specifico della realtà virtuale, che oggi iniziano ad essere utilizzate nell’ambito della psicologia clinica, suscita delle perplessità poiché potrebbe comportare una totale immersione e conseguente alienazione dalla realtà.
Cercheremo dunque in quest’articolo di spiegare al meglio quali sono stati i vantaggi apportati da queste nuove tecnologie nell’ambito della psicologia clinica e al contempo si analizzeranno i risvolti negativi.
Introduzione
È ormai molto difficile pensare di trascorrere un ragionevole periodo di tempo senza che la tecnologia prenda il sopravvento sulla nostra routine.
E se per certi versi la tecnologia associata a internet ha apportato una serie di agevolazioni e miglioramenti nella vita professionale, scolastica e sociale di ognuno di noi; per altri invece è divenuta causa di disturbi e comportamenti nocivi per la salute psico-fisica delle persone. L’utilizzo eccessivo di internet infatti, porta ad una dipendenza. La prima, in ordine di studio e analisi, è l’Internet Addiction Disorder (IAD, espressione coniata nel 1995 dallo psichiatra americano Ivan Goldberg). Molti fra i più giovanissimi, ma anche uomini single, donne di mezza età, oggi più di ieri, manifestano sintomi riconducibili a una ‘dipendenza da internet’. Generalmente un soggetto affetto da IAD, quando non ha accesso alla Rete, palesa un evidente stato di irritabilità e nervosismo. Si tratta di uno stato spesso associato ai disturbi del controllo degli impulsi; una situazione che genera ansia e tensione, ovvero una serie di disturbi per i quali il soggetto trova sollievo nell’utilizzo della rete. Alcune fra le conseguenze inevitabili per chi fa un abuso d’internet sono: perdita di controllo, alterazione dell’umore, disturbi sociali.
Dall’altro lato, però, la tecnologia oggi si è messa al servizio della clinica attraverso la realtà virtuale e aumentata. Il loro utilizzo si basa sul principio che il paziente è l’artefice principale del proprio cambiamento, assumendo un ruolo attivo nel proprio percorso di cura, in funzione del fatto che egli è il massimo esperto delle esperienze che lo riguardano e che lui soltanto è in grado di fornire al terapeuta e a se stesso la chiave di accesso al suo sentire. L’obiettivo è di creare cambiamenti a livello del pensiero, modificando quegli schemi disfunzionali causa dei comportamenti disadattivi del paziente.
In particolare, la tecnica espositiva, largamente utilizzata in campo cognitivo comportamentale, che è un valido strumento volto a valutare l’inesattezza di determinate credenze all’origine della patologia, nonché uno straordinario strumento per sperimentare nuove modalità di interazione con l’ambiente, risulta quella che gode dei maggiori benefici dall’utilizzo delle nuove tecnologie.
Ciò poichè, oggi più di ieri, è possibile asserire che le tradizionali tecniche espositive, in immaginazione e in vivo, presentano alcuni limiti (difficoltà di immaginare, di raccontare, la reticenza ad esporsi in vivo) che di contro le nuove tecnologie immersive, ovvero sia la Realtà Aumentata, Augmented Reality (AR) e soprattutto la Realtà Virtuale possono agevolmente superare.
Nello specifico della Realtà Virtuale (Virtual reality o VR), consente di creare degli ambienti ad hoc in base agli obiettivi che si intendono raggiungere. Mentre nella realtà aumentata prevale il mondo reale, nel quale l’utente non ne è distaccato ma incorporato, nella VR grazie all’uso di visori e altri smart devices, si crea una realtà interamente digitale in cui ci si può muovere liberamente.
Di fatto, utilizzare la tecnica espositiva facendo uso di ambienti virtuali (Virtual Environments o EV) consente a paziente e terapeuta di condividere concretamente l’esperienza: l’ambiente è infatti chiaro, manifesto e praticabile per entrambi, senza contare quanto questa modalità esperienziale aumenti in maniera esponenziale la compliance restituendo al paziente nuove prospettive per sentirsi artefice e protagonista del suo processo di cura, grazie al suo ruolo attivo all’interno della terapia. In tal modo, il paziente percepirà l’intero percorso terapeutico come parte integrante della propria vita e acquisirà un ruolo centrale di responsabilità e padronanza. Come evidenziato da Riva (2005), la RV e le altre terapie computerizzate si sono dimostrate essere un validissimo strumento d’ausilio nella pratica psicoterapeutica, classificandosi rispettivamente al terzo e quinto posto, precedute solo dagli homeworks , dalla prevenzione delle ricadute e dalle tecniche incentrate sul problem solving . La RV consentirebbe di unire in un’unica esperienza i diversi metodi di intervento (cognitivi, comportamentali ed esperienziali) e permetterebbe ai pazienti (in particolar modo a chi è affetto da fobie e da disturbi del comportamento alimentare) di sperimentare un “arrangiamento” sensoriale controllato in grado di modificare, inconsciamente, le loro esperienze (Riva, 2005).
Considerazioni
Uno degli ambiti di applicazione in cui la realtà virtuale ha sortito numerosi benefici è quello dei disturbi d’ansia. La realtà virtuale diventa un utilissimo passaggio intermedio tra lo studio del terapeuta e il mondo reale, rappresentando uno strumento in grado di rendere più agevole il trattamento, soprattutto in casi particolari (Botella et al., 2004).
La tecnica più utilizzata, nell’ambito dei disturbi d’ansia è l’esposizione, che consiste nell’esporre gradualmente il paziente allo specifico stimolo ansiogeno così da poter favorire l’abituazione all’ansia e una conseguente estinzione della stessa, in modo che non si ripresenti più in futuro (Kaczkurkin & Foa, 2022). L’adattamento della tecnica dell’esposizione graduale alla RV (Virtual Reality Exposure Therapy; VRET) consente ai pazienti di percepirsi al sicuro e di sperimentarsi maggiormente rispetto al tradizionale setting terapeutico, e ciò determinerebbe una maggiore capacità negli stessi di rimanere esposti, per periodi prolungati di tempo, allo stimolo temuto senza abbandonare il trattamento (Meyerbroöker et al., 2014). Inoltre, uno dei tanti vantaggi della VRET è quello di riuscire a ricreare situazioni che, altrimenti, risulterebbe complicato riprodurre dal vivo (si pensi ad esempio all’esposizione in caso di aviofobia).
Uno studio di Grenier et al. (2015) ha dimostrato che l’accostamento della RV alla CBT implementasse in modo significativo i benefici della stessa in termini di remissione dei sintomi (Grenier et al., 2015). Nello specifico, lo studio voleva indagare l’utilità della RV in merito al trattamento dell’ansia nelle persone anziane. Sembrerebbe che esporre gli anziani agli stimoli ansiogeni, in RV anziché in un contesto di immaginazione, renda la tecnica molto più efficace rispetto a quando è utilizzata nel protocollo standard della CBT (Grenier et al., 2015).
L’ausilio della RV è stato implicato anche nel trattamento del disturbo ossessivo compulsivo (DOC). Una delle tecniche standard maggiormente utilizzate per tale trattamento è l’esposizione con prevenzione della risposta (Exposure and Response Prevention – E/RP), una tecnica di orientamento cognitivo-comportamentale. La E/RP ha la finalità di aiutare il paziente nell’esporsi a uno stimolo ansiogeno che provoca determinate ossessioni (qualcosa ritenuto sporco; coltelli, se le ossessioni sono di stampo violento; croci e immagini sacre, se le ossessioni sono di tipo religioso, ecc.) esortandoli a non agire alcuna compulsione (rituali comportamentali o mentali), in modo tale da abituarsi alle manifestazioni ansiogene (Kim et al., 2009). È stato dimostrato che l’esposizione con prevenzione della risposta, adattata alla RV, favorisce l’aderenza al trattamento da parte dei soggetti con DOC. Questo si verifica perché i pazienti, nonostante provino ansia al momento dell’esposizione alle proprie ossessioni, sono consapevoli del fatto di poter interrompere il trattamento in qualsiasi momento. Questa percezione di controllo sull’ambiente sembrerebbe incrementare notevolmente i livelli di autoefficacia personale, aumentando così la motivazione a proseguire con il trattamento (Kim et al., 2009).
Nel trattamento del DOC la RV è stata spesso associata alla IBT (Inference Based Therapy). La IBT è un terapia derivante dall’approccio cognitivo-comportamentale ed è stata prevalentemente utilizzata nell’ambito del trattamento del disturbo ossessivo compulsivo. L’assunto teorico alla base della stessa fa riferimento al fatto che i pazienti con DOC confondono la possibilità immaginata con la realtà (confusione inferenziale): l’accento è posto su una possibilità immaginata piuttosto che su ciò che può essere percepito con i sensi (St-Pierre-Delorme e O’Connor, 2016). La possibilità immaginata sembra così realistica che gli individui sperimentano questa eventualità come se fosse vera e vivono un’attivazione fisiologica, sentimenti di ansia e compulsioni che sono in accordo con lo scenario immaginato e si fondono col dubbio ossessivo. Secondo l’approccio basato sull’inferenza, gli individui tendono a sperimentare ossessioni specifiche in alcune aree e non in altre, perché il contenuto riflette un tema del “sé” vulnerabile sottostante (O’Connor & Aardema, 2012).
Un altro ambito, direttamente derivabile dal DOC, in cui è stata utilizzata la RV è il disturbo di accumulo. Le persone affette dal disturbo da accumulo non riescono a disfarsi dei propri oggetti a causa dell’ansia associata allo scarto e all’intero processo decisionale. L’evitamento comportamentale relativo al disfacimento, unito alle intense emozioni positive associate all’acquisizione di nuovi oggetti, instaurano un circolo vizioso che costituisce un fattore di mantenimento del comportamento da accumulo nel corso del tempo (Gresham & Baldwin, 2015). La CBT (Computer Based Training) si è dimostrata essere la psicoterapia in grado di sortire numerosi benefici nei pazienti affetti dal disturbo da accumulo, con un mantenimento significativo dei risultati al follow-up (Muroff et al., 2014). L’esposizione in immaginazione, molto utilizzata nel trattamento del disturbo da accumulo, consiste nel guidare l’individuo all’atto di disfacimento di determinati oggetti. Questo tipo di esposizione riscontra quasi gli stessi limiti dell’esposizione in vivo: quando i pazienti tentano di disfarsi degli oggetti, sia in un contesto immaginativo che in vivo, si registra in loro una forte attivazione emotiva di tipo negativo che limita l’azione della CBT determinando, molto spesso, tassi elevati di drop-out (Fracalanza et al., 2021).
Proprio per questo, anche nel caso del trattamento concernente il disturbo da accumulo è stata implicata la RV, per tentare di potenziare i benefici ottenuti con la CBT standard. Nel caso del disturbo da accumulo, le simulazioni virtuali riproducono gli spazi principali di un’abitazione, all’interno della quale l’individuo può muoversi con l’ausilio di dispositivi quali mouse o joystich (realtà virtuale non immersiva), oppure attraverso dei dispositivi specifici che ingannano i sensi del soggetto facendolo sentire parte integrante dell’ambiente virtuale (realtà immersiva).
La realtà virtuale di tipo non immersivo è una simulazione che coinvolge solo in parte i sensi dell’individuo, il quale continuerà ad avere un contatto con la visione periferica del mondo circostante (Antonucci, 2008). La RV non immersiva non consente di raggiungere un massimo livello di “presence”, ossia un coinvolgimento cognitivo ed emotivo, basato sull’inganno sensoriale, che consente all’individuo di sentirsi totalmente parte della simulazione virtuale, sia da un punto di vista cognitivo che emotivo, come se stesse vivendo per davvero ciò che si verifica all’interno della stessa (Meyerbroöker et al., 2014). Ciò significa che l’individuo si comporterà come se stesse vivendo per davvero un contatto con gli stimoli presenti nella simulazione, nonostante la consapevolezza che non si tratti di un ambiente virtuale (Freeman et al., 2017).
La RV di tipo immersivo, invece, prevede l’utilizzo di specifici strumenti tra i quali, ad esempio, due piccoli schermi in posizione molto ravvicinata agli occhi dell’individuo, fissati alla testa in modo da restare sempre nella stessa posizione rispetto agli occhi qualunque siano i movimenti della testa o del corpo, e incapsulati in una qualche struttura che non consenta di vedere nulla circa il mondo periferico circostante (Antonucci, 2008; Lombard et al., 2015). Tali dispositivo, considerato uno dei più sofisticati nell’ambito della RV, prende il nome di Head mounted display; esso ha la forma di un ‘casco-visore’, totale o parziale che isola il soggetto dal mondo circostante (Antonucci, 2008).
Nel contesto del disturbo da accumulo, così come nel contesto dei disturbi d’ansia, il tipo di simulazione virtuale più utilizzata è quella non-immersiva. Questo perché la troppa realisticità dell’ambiente virtuale potrebbe determinare l’insorgenza di un vissuto emotivo troppo intenso, simile a quello dell’esposizione in vivo, che non consentirebbe ai soggetti di rimanere esposti per un periodo prolungato di tempo, incrementando il rischio di elevati tassi di drop-out (Meyerbroöker et al., 2014).
Infatti, l’impiego della realtà virtuale nel trattamento del disturbo da accumulo è stato preso in considerazione a fronte di numerosi problemi relativi agli elevati tassi di drop-out dei pazienti, soprattutto al momento dell’esposizione graduale di tipo comportamentale. L’esposizione graduale, che consiste nell’esporre gradualmente il soggetto allo stimolo da lui percepito come fortemente minaccioso, in modo da favorire l’abituazione allo stesso, nel disturbo da accumulo riguarda la richiesta fatta al paziente di provare a disfarsi di alcuni oggetti, accumulati nel tempo. Il tentativo di disfacimento ( o anche solo la richiesta) costituisce, nei pazienti con HD, il trigger che attiva una serie di emozioni fortemente spiacevoli, tra cui l’ansia. La RV dovrebbe facilitare l’esposizione all’atto di disfarsi degli oggetti, per il fatto che gli individui sanno che si tratta di una simulazione informatica non reale (Kaczkurkin & Foa, 2022). Nonostante l’artificialità della situazione virtuale, le menti dei pazienti e i loro corpi si comportano come se quella situazione a cui si espongono fosse reale.
Comunque, al di là di questi risultati, come per ogni nuova metodologia e tecnologia, molta attenzione va posta alla verifica delle opportunità che effettivamente le tecnologie immersive possono offrire, per evitare il rischio di basarsi su presupposti infondati e di invalidare il lavoro di ricerca e di intervento a cui ci si appoggia. Si rende quindi necessario continuare a espandere e approfondire gli studi sperimentali e clinici su tutti gli aspetti dell’interazione uomo-sistemi RV. Ai fini dell’impiego della tecnologia virtuale in ambito clinico, alcuni fattori rivestono una particolare importanza per la loro influenza sulla sicurezza, il benessere e le prestazioni degli utenti. Non bisogna sottovalutare gli aspetti psico-fisiologici, cognitivi ed emotivi che l’utente può manifestare nell’adattamento all’esperienza virtuale e nel riadattamento alla realtà. Di fatto, l’esperienza in ambiente virtuale impegna l’individuo in modo inusuale, è necessario quindi indagare in modo approfondito “come” si realizza l’interazione fra l’individuo, gli oggetti e gli ambienti che la simulazione mette in campo (Vaccarino, 1993). Benché, infatti sia stato verificato che l’impiego psicofisico dell’individuo in talune simulazioni virtuali è simile a quello in analoghe situazioni reali, va tuttavia considerato che non tutte le esperienze virtuali possono essere ritenute omogenee sotto questo aspetto. Le prove si basano soprattutto sui dati di ricerche empiriche sull’efficacia dei training con simulatori RV di vario genere, che, del resto, non sempre hanno dato risultati coerenti (Regian, Shebilske e Monk, 1992).
Conclusioni
Come ogni novità, anche queste nuove tecnologie immerse e soprattutto la realtà virtuale suscita delle perplessità poiché potrebbe comportare una totale immersione e conseguente alienazione dalla realtà. In parte queste preoccupazioni sono fondate e legittime sia da parte dei singoli utenti che delle istituzioni, ma sono legate, non al mezzo, bensì alle modalità di utilizzo di queste tecnologie.
Se usate con cautela e i dovuti accorgimenti, infatti, questi dispositivi non causerebbero nessuno dei problemi che sono accusati di provocare, ovvero sia: alienazione, cambiamento di comportamento, disadattamento e addirittura un cambiamento nell’atteggiamento. A tal riguardo, molti additano la realtà virtuale associandola ai video giochi e dunque al fatto che, comportamenti violenti simulati nei video possano influenzare, soprattuto, i giovani (che ne sono i massimi “consumatori” ) al punto da cambiarne i comportamenti. A breve termine, secondo Jeremy Bailenson la realtà virtuale cambia il modo in cui pensiamo e agiamo, tuttavia, gli effetti che devono preoccuparci sono legati a un abuso dello strumento o a un suo uso incontrollato (2013). Inizialmente, Bailenson e la sua tematica del Virtual Human Interaction Lab sostenevano che la realtà virtuale potesse influenzare il punto di vista di chi la utilizzava e spingeva a dei ragionamenti e delle riflessioni che potessero arrivare a cambiare gesti e attitudini (2019).
Tuttavia, prendendo in esame alcuni esempi di applicazioni reali è possibile asserire anche, che sinora gli studi fatti e le applicazioni condotte circa il potenziale della AR e della VR, sono state effettuate in ambito accademico e laboratoriale e non nel reale, inoltre si sono sempre concentrati su tematiche sociali o ambientali e non sono state mai certo volte a innescare nei partecipanti sentimenti d’odio o desiderio di violenza. Per tali ragioni la AR e la VR pur risultando un mezzo versatile sono ancora al vaglio. “Probabilmente nel futuro di fondamentale importanza, sarà conoscere se sul lungo periodo somministrare esperienze in VR violente o poco morali possa spingere le persone ad essere a loro volta aggressivi o assumere comportamenti contrari alla propria etica. Inoltre, nello specifico ambito della psicologia clinica la valutazione delle opportunità offerte richiede ancora ulteriori approfondimenti ed è limitata dai costi elevati richiesti dallo sviluppo delle simulazioni virtuali appropriate e dai limiti tecnologici dei sistemi (Gerardi, 2019).” I tempi di sviluppo della tecnologia virtuale sono rapidi, il miglioramento della qualità delle simulazioni non è però riducibile all’incremento di potenza degli elaboratori o al perfezionamento dei dispositivi di interazione. Per incrementare i benefici in favore degli utenti nelle applicazioni diagnostiche e terapeutiche, è necessario continuare la sperimentazione sistematica sia su casi singoli che su gruppi, per definire criteri standardizzati e analizzare l’affidabilità e la veridicità dei risultati ottenuti. Nonostante esistono significanti problemi legati alla verificabilità e alla replicabilità dei dati, difficili da ottenere fino a quando i sistemi RV non saranno largamente diffusi, in psicologia clinica la sperimentazione è essenziale. Di fatto, da un lato ci permette di valutare preventivamente l’idoneità dei singoli individui ad un’esperienza virtuale e, dall’altro, è utile per vagliare le conoscenze degli effetti fisiologici e psicologici dell’interazione in ambiente virtuale, sia sulla popolazione normale sia su individui con disabilità o disturbi psicologici.
Studi di Bailenson e del Virtual Human Interaction Lab nel 2019 hanno rilevato in alcune utenze, da un punto di vista fisico, alcuni disturbi quando indossavano i visori, tra i più frequenti ci sono: pallore, vertigine, nausea, sudorazione eccessiva e vomito nei casi più gravi e sono la conseguenza di ciò che viene chiamata nausea da movimento indotta visivamente. La maggior parte dei casi in cui si riscontrano tali disturbi è legata all’immagine che non segue il movimento degli occhi o della testa o il cortocircuito che si crea se i messaggi forniti dai nostri sensi sono incoerenti gli uni con gli altri (e ad esempio quello che vediamo e sentiamo non corrisponde). Per tali ragioni le aziende forniscono i dispositivi virtuali come fossero dispositivi medici consigliando pause di dieci/quindici minuti ogni mezz’ora e altri espedienti per non estraniarsi completamente dalla realtà. Un altro aspetto da considerare è l’efficacia dei dispositivi in dotazione.
Se parliamo di immersione, coinvolgimento ed emozionalità la realtà virtuale convince spesso, e ha avuto grande successo nel trattamento di differenti disturbi psicologici, con particolare attenzione verso il trattamento dei Disturbi d’Ansia, del Comportamento Alimentare o relativi all’immagine corporea e dei Disturbi Sessuali (Vedi: www.sciencedirect.com 19/04/19). In questo modo, la somiglianza dell’ambiente virtuale col mondo reale, in ambito clinico permette di mediare tra lo studio dello psicologo (con il più elevato livello di protezione) e l’ambiente esterno (dove il rischio, rappresentato per il soggetto sottoposto a tale tecnica riabilitativa, è massimo). Basandosi su questa concezione, si ravvisa che la VR, più che una terapia, è uno strumento efficace di cui ci si può avvalere in ambito clinico senza però sostituirsi ai tratti, alle tecniche, alle teorie e ai passaggi essenziali che contraddistinguono le varie terapie.
Seppur la VR sia stata utilizzata, nella maggior parte dei casi, in contesti del tutto sperimentali, molto deve essere ancora fatto in tal senso. Ancor oggi, per esempio, ciò che preoccupa gli addetti ai lavori è che il pro-tocollo che utilizza gli ambienti VR, mostrandosi come uno strumento esclusivamente informatico, potrebbe essere posto a confronto con simulazioni grafiche 3D (film, videogiochi, etc..) ben più accattivanti, rischiando perciò di essere percepito dai fruitori come un “gioco”, peraltro con una grafica non particolarmente efficiente e moderna. Ancora di più, mostrare solo l’aspetto tecnologico di tali protocolli riduce il percorso psicologico a mero metodo tecnico, nel quale la relazione diventa un elemento trascurabile e marginale.Tale semplificazione viene percepita come inaccettabile da tutti quegli operatori che ben riconoscono l’importanza primaria della relazione vis-a-vis in ogni protocollo clinico.
Seppur, ripensando al periodo pandemico (Sars-Covid-19, 2020-2021) in cui in qualche modo si è dovuto ricorrere alla terapia clinica a distanza, quello relativo all’uso della realtà virtuale come strumento clinico potrebbe essere semplicemente considerata come la versione 2.0. A tal riguardo, infatti ogni psicologo dovrebbe interrogarsi, tenendosi in continuo aggiornamento.
___________________________________________
Bibliografia
Capra, M. et al. (2019). Edge Computing: A Survey on the Hardware Requirements in the Internet of Things World. Future Internet 11(4):1–25.
Botella et al., 2004, Realtà virtuale e psicoterapia, Stud Health Technol Informa.
Riva, 2005, Cyberpsychol Comportamento.
Riva G, et al. Cyberpsychol Comportamento. 2003. PMID.
Clelia Malighetti et al. J Clin Med, 2022, Dalla realtà virtuale alla terapia virtuale rigenerativa: alcuni spunti da una revisione sistematica che esplora la percezione del corpo interno nell’anoressia e nella bulimia nervosa.
Riva G., Mantovani F., Capideville CS, Preziosa A., Morganti F., Villani D., Gaggioli A., Botella C., Alcañiz M. Interazioni affettive utilizzando la realtà virtuale: il legame tra presenza ed emozioni. Cyberpsychol. Comportamento 2007; 10:45–56. doi: 10.1089/cpb.2006.9993. -DOI – PubMed.
Viola, V. I. Cassone, L’arte del coinvolgimento. Emozioni e stimoli per cambiare il mondo.
Freeman D., Reeve S., Robinson A., Ehlers ADBM Realtà virtuale nella valutazione, comprensione e trattamento dei disturbi di salute mentale. Medicina Psicologica.2017;47(14) 2393–2400. doi: 10.1017/s003329171700040x. DOI – PMC – PubMed.
Lin et al., An investigation of learners’ collaborative knowledge construction performances 24 and behavior patterns in an augmented reality simulation system, (2013).
Jenkins Henry, Cultura convergente, Feltrinelli editore, Milano, 2007.
S.Girardi_tesi, La scienza al servizio della realtà virtuale e la realtà virtuale al servizio della scienza. Gli studi del VHIL e il suo potenziale comunicativo, 2019, Trieste.
Dal Pozzo Cristiano, Negri Federica, Novaga Arianna, La realtà virtuale: dispositivi, estetiche, immagini, Mimesis, 2018 .
Gallese Vittorio, Guerra Michele, Lo schermo empatico, Raffaello Cortina editore, Milano, 2015.
MM North, SM North, JR Coble, 2000. Virtual reality therapy: an effective treatmente for psychological disorders. In: Virtual reality in Neuropsycho-physiology, IOSPress.
Riva, 2000. Virtual reality as assessment tool in Psychology. In: Virtual reality in Neuropsycho-physiology, IOSPress. Riferimenti Bibliografici.
Bergamasco M. (1993), Movimento e retroazione di forza per ambienti virtuali, in Muscolo e riabilitazione, Atti del XXI congresso nazionale SIMFER (Società italiana di medicina fisica e riabilitazione), Roma, 10-13 ottobre 1993, 1, pp.122-155.
Biocca F. (1992a), Communication whitin Virtual Reality: Creating a Space for Research, Journal of Communication, 4, pp.5-22.
Biocca F. (1992b), Virtual Reality Tecnology: A Tutorial, Journal of Communication, 4, pp. 23.
Regian, Shebilske e Monk, 1992.
Sutherland IE Un display tridimensionale montato sulla testa; Atti della Fall Joint Computer Conference, Parte I: ACM; New York, New York, Stati Uniti. 9-11 dicembre 1968; pp. 757–764.
https://123dok.org/article/realt%C3%A0-virtuale-e-comunicazione-della-scienza.ozl20erq. Il concetto di presenza nella realtà virtuale: http://www.nature.com/cgi-taf/DynaPage.taf? file=/nrn/journal/v6/n4/abs/nrn1651_fs.htm
Dott.ssa Vera Cantavenera, Pronto Soccorso Psicologico Italia
This website uses cookies so that we can provide you with the best user experience possible. Cookie information is stored in your browser and performs functions such as recognising you when you return to our website and helping our team to understand which sections of the website you find most interesting and useful.
Cookie strettamente necessari
I cookie strettamente necessari dovrebbero essere sempre attivati per poter salvare le tue preferenze per le impostazioni dei cookie.
Se disabiliti questo cookie, non saremo in grado di salvare le tue preferenze. Ciò significa che ogni volta che visiti questo sito web dovrai abilitare o disabilitare nuovamente i cookie.