Tra spinte generative e antigenerative: gli adultiscenti

Tra spinte generative e antigenerative: gli adultiscenti

a cura di: Prof. Mariano Indelicato, Presidente Pronto Soccorso Psicologico Italia

Abstract

Lo sviluppo dell’individuo passa attraverso varie fasi poiché ogni individuo, da un lato, ha una storia e,  dall’altro, crea storia. Crescere prevede un grande lavoro poiché ogni fase fase fa entrare in un mondo nuovo dal quale si esce con nuovo sé. Bloccare questo processo di crescita o il permanere all’interno di una fase dello sviluppo senza la necessaria transizione a quella successiva diventa funzionale all’antigeneratività. Il mandato che riceviamo dalle generazioni precedenti è quello di rilanciare il patto generativo attraverso l’elaborazione della storia generazionale in cui siamo immersi fin dalla nascita. Fondamentale a tal fine è il processo di svincolo dalla famiglia di origine che permette di abbandonare l’adolescenza per passare all’adultità. Abbandonare il nido dove siamo nati e cresciuti comporta un viaggio eroico in cui dobbiamo confrontarci con ciò che ci è stato trasmesso e tramandato dalle generazioni precedenti in modo da poter costruire una nuova storia da trasmettere a quelle successive. All’interno del nostro sistema sociale si sta imponendo sempre più una nuova ed inedita fase dello sviluppo quella dell’adultescenza ovvero di adulti che assumono comportamenti tipici degli adolescenti interrompendo la spinta verso la generatività.

Introduzione

Durante lo sviluppo l’individuo passa attraverso vari stadi che in gergo tecnico vengono definite fasi di ciclo vitale. La nascita, l’entrata alla scuola materna, la pubertà, l’adolescenza, lo svincolo dalla famiglia di origine, l’entrata nel mondo del lavoro, la genitorialità, l’uscita dei figli da casa, l’uscita dal mondo del lavoro, la terza età sono le varie fasi che sono contraddistinte da cambiamenti più o meno significativi nel quale l’individuo acquisisce un nuovo status. Prendendo a prestito una definizione di Scabini e Cigoli (2000) possiamo affermare che, a seguito del susseguirsi delle fasi di ciclo vitale, ogni individuo ha una storia e crea storia. Ciò significa che ogni individuo ha sempre un passato, un presente e una prospettiva di vita futura e ciò rappresenta il suo elemento differenziale al fine dello sviluppo armonico della personalità.

Secondo tale modello, la storia individuale è caratterizzata da un’evoluzione ciclica, per cui essa nasce e si trasforma nel tempo percorrendo una successione di diversi stadi, che scandiscono delle vere e proprie tappe evolutive e attivano processi generativi. L’esito di tali processi segna il passaggio ad uno stadio successivo. Tale transizione è caratterizzata da eventi nodali (o critici) e specifici compiti di sviluppo (o evolutivi) che comportano una continua rielaborazione dei principali ambiti relazionali sia in ambito familiare che sociale. Crescere prevede un grande lavoro poichè ogni fase  di ciclo vitale fa entrare in un mondo nuovo dal quale si esce con un nuovo sé.  Al contrario, il salto di passaggi o il permanere all’interno di una fase dello sviluppo senza la necessaria transizione a quella successiva è funzionale all’anti – generatività.  

V. Cigoli (2006) individua nel trasgredire il processo attraverso il quale viene rilanciato il patto generativo. Infatti all’interno dei passaggi generazionali, sempre lo stesso autore, indica nel trasmettere il processo attraverso il quale vengono trasmesse alle generazioni successive il nome e l’eredità di beni e di status socio economico, nel tramandare quello con cui vengono veicolati i valori e la storia generazionale. Nel corso dell’adolescenza l’individuo rielabora ciò che gli è stato trasmesso dalle generazioni precedenti attraverso il trasgredire.   Particolare importanza assume in questa fase lo svincolo dalla famiglia di origine la quale diventa il luogo dello scontro tra spinte generative e antigenerative poiché se, da un lato, tocca alle generazioni precedenti favorire il rinnovamento delle origini, dall’altro, quelle successive devono “accettare e riconoscere ciò che padri e madri hanno lasciato in eredità e passare aldilà rilanciando l’azione generativa” (Cigoli).  In natura la mamma aquila, nel momento in cui si rende conto che il suo piccolo è pronto a volare, lo artiglia, lo porta in alto cielo e lo lascia andare. In sostanza “tocca alle generazioni precedenti garantire uno spazio fluido e di rinnovamento delle origini a quelle successive”(ibidem). Bowen (1979), a tal proposito, sostiene che esso “riguarda il grado di ‘differenziazione del sé’ di una persona. Il contrario della differenziazione è dato dal livello di ‘non differenziazione’ cioè di ‘fusione dell’io”. Canevaro (2011) afferma che “una delle fasi più difficili nella crescita di un essere umano è il processo di autonomizzazione, elaborazione di un progetto esistenziale e inserimento creativo nella società. Distaccarci dalla organizzazione familiare che ci ha dato il nome e dalle persone con cui abbiamo accumulato migliaia e migliaia di interazioni lungo il tempo è un processo graduale che non finisce mai e che si interseca con la nostra discendenza in un movimento ciclico, auto perpetuante”. Affinché possa avvenire il trasloco da un nido all’altro bisogna differenziare il proprio sé al fine di poter costruire un nuovo noi. Il nuovo nido ha bisogno di ancorarsi saldamente sul vecchio. Il passaggio da un nido all’altro fino a pochi anni fa avveniva con il matrimonio, oggi si va a convivere o a vivere da soli. Sono aumentate le possibilità di sperimentarsi senza l’ausilio dei genitori. Nell’attuare lo svincolo dalla famiglia di origine bisogna stabilire i confini tra il nuovo e il vecchio nido. A volte questi confini sono rigidi, soprattutto quando le famiglie di origini hanno difficoltà ad accettare l’uscita dei propri figli. Altre volte sono inesistenti ovvero vi è un passaggio continuo da un nido all’altro tanto da non riuscire a capire se il figlio sia veramente uscito di casa. Ciò avviene quando i figli hanno eccessivi sensi di colpa e, quindi, cercano di attenuare le conseguenze emotive legate allo svincolo. L. Cancrini (2001), sostenendo che “Il ciclo vitale della famiglia deve essere integrato per completezza, tenendo conto di situazioni psicopatologiche che sviluppano all’interno di altri sistemi interpersonali”, individua quattro tipi di svincolo disfunzionale:

1. Svincolo impossibile: che corrisponde alle situazioni di una famiglia nella quale si verifica la presenza di una forma schizofrenia di tipo ebefrenico; a livello familiare corrisponde, secondo Bowen (1979), un tipo di famiglia secondo la capacità di differenziazione: esso riguarda la “massa indifferenziata dell’io”.

2. Svincolo inaccettabile: con un membro appartenente alla classificazione di schizofrenia di tipo catatonica. Lo svincolo “non avviene o avviene per brevi periodi e in settori limitati”.

3. Svincolo apparente: avviene in modo incompleto o parziale. A livello del soggetto troviamo le crisi di tipo schizoaffettivo: crisi maniacali e depressive; forme gravi di anoressia e di tossicomanie di tipo C.

4. Svincolo del compromesso: essa si determina attraverso un progetto che appartiene alla famiglia. A livello del soggetto troviamo un disturbo psicotico di personalità: schizoide o borderline; si possono presentare con forme meno gravi di tossicomanie di tipo C o anoressia vera.  

Andolfi e Kohut (1987) individuano nel padre la figura preminente nello svincolo dalla famiglia di origine sostenendo, il primo, che “egli è il regista invisibile, meno coinvolto rispetto alla madre, più capace d’intervenire e di opporre la barriera del rifiuto, coltivando al tempo stesso il legame d’amore, indispensabile nel consentire lo svincolo adolescenziale attraverso il porre e garantire le regole” e, il secondo, che “la funzione paterna esercita un compito vivificante in grado di favorire la nascita sociale dei figli non solo offrendo un’alternativa al rispecchiamento materno ma sostenendo, anche attraverso la frustrazione, un’organizzazione del pensiero e delle prove di realtà in quanto strumenti di separazione, distacco e autonomia”.

E’ anche attraverso “l’evaporizzazione della figura paterna” (Lacan, 1969) che negli ultimi anni si è inserita una nuova fase di sviluppo: quella degli adultiscenti.

Considerazioni

Il termine, di origine giornalistica, è entrato nel vocabolario della Treccani nel 2008 con questa definizione: “Persona adulta che si comporta con modi giovanili, compiacendosi di ostentare interessi e stili di vita da adolescenti” (Il Vocabolario Treccani, 2008, p. 8) e, successivamente, nello Zingarelli nell’edizione 2014 che, tra le circa 1500 nuove parole,  presenta  il lemma adultescente che, come è facilmente intuibile, rimanda da un unione tra adulto ed adolescente, che rimanda ad uno status in qualche misura nuovo, anomalo o, comunque, problematico.  Il lemma adultescente non è nuovo in ambito internazionale poiché corrisponde ai termini  inglesi adultescent e kidult e al  francese adulescent. R. De Santis, in un articolo pubblicato su  “La Repubblica” il  12.09.2013 “Da “hashtag” a “rottamatore” ecco la nuova lingua degli italiani”  a proposito di nuovi termini entrati nel vocabolario sia quotidiano che ufficiale facendo riferimento ad adultescente scrive: “neologismo usato per indicare i giovani trentenni le cui condizioni di vita (studio, lavoro, casa) e la cui mentalità sono considerate simili a quelle di un adolescente. Un’evoluzione della sindrome di Peter Pan, malattia inguaribile dell’Occidente: gli anglosassoni li chiamano ‘kidult’, i bambini adulti (kid+adult) e i francesi ‘adulescent’ (contrazione dei termini ‘adult’ e ‘adolescent’)… Certo, l’identikit dell’italiano che viene fuori dallo Zingarelli 2014 non è confortante: siamo ‘iperattivi’, vestiamo ‘bling bling’, cioè in modo ‘ostentato e vistoso’ e sembriamo affetti da un crescente ‘nostalgismo’. Segno che nonostante la velocità dei cambiamenti, preferiamo vivere di rimpianti”.

Massimo Ammaniti (2018), dal punto di vista psicologico,  usa il neologismo “adultescenza” per indicare una fase della vita postadolescenziale nella quale quei tratti caratteristici degli adolescenti perdurano oltre i 30 anni. Gli adultescenti non si rendono conto del tempo che passa e vivono totalmente concentrati su sé stessi: una condizione esistenziale che rende impossibile una responsabilizzazione verso un partner, o la creazione di una famiglia, pena il sacrificio della loro condizione di “stabile instabilità”, in attesa di un qualcosa che risolva la loro vita. L’adultescenza può essere una fase della vita più comune nei paesi più ricchi e sviluppati, i quali danno maggior tempo e possibilità di esplorazione agli adultescenti che però, se non si danno un limite, potrebbero rimanere in questa fase per un lungo tempo e sottrarsi al confronto con la realtà (Ammaniti, 2018, p. 107-111).  Cancrini (2001), come accennato, nel descrivere i sintomi tipici dello svincolo impossibile parla di veri e propri rifugi della mente che costituiscono la trappola in cui si trova imprigionato l’adultescente. Per Steiner (1996) un rifugio offre protezione ma al contempo porta allo stallo, alla non crescita, all’isolamento perché se è vero che protegge dalle minacce esterne è altrettanto vero che servono a legare gli impulsi distruttivi primitivi. I rifugi della mente sono tipici delle organizzazioni bordeline e psicotiche in cui si resta legati ai desideri che non potranno trovare il necessario godimento. Questa concezione trova i precursori negli stili di attaccamento e, in particolare, in  quello disorganizzato (Main, Hesse, 1990) in cui sono presenti traumi e/o lutti non risolti nei care giver o come messo in risalto da Lyons-Ruth et al. (2005) in stati mentali dei care giver caratterizzati da ostilità e impotenza. Per Liotti (1999) l’attaccamento disorganizzato incide sulla difficoltà a riconoscere e a regolare le proprie emozioni e sulla rappresentazione molteplice e incoerente di sé. Il problema di questo tipo di attaccamento è che il bambino vive le figure genitoriali con un atteggiamento ambivalente poiché nello stesso tempo sono fonte di protezione e pericolo. Ciò comporta una chiusura verso il mondo esterno che diventa un luogo pericoloso e brutale. Il non potersi affidare all’altro, al diverso da me comporta la continua ricerca di rassicurazioni all’interno del proprio ambiente familiare. Si resta eternamente figli per la paura di non potersi fidare né dell’altro né di se stessi. E’ la difficoltà vissuta dagli adultescenti i quali non riescono a passare alla fase adulta.  

Lo smarrimento dell’adultità, secondo Cornacchia (2015), è divenuta magmatica e pluriforme, rispetto alle tradizionali rappresentazioni pervenutici a partire da Erickson, e rivela una condizione di crisi divenuta di fatto statutaria che si manifesta con forme di delega, rinuncia, fuga, arretramento verso la generazione che dovrebbe compiere il salto nell’età adulta.  Il paradosso nel rapporto tra le generazioni è che diventando gli adulti adolescenti quest’ultimi sono costretti, con un pericoloso rovesciamento generazionale, ad assumere ruoli che ancora non gli competono. E’ il complesso di Telemaco descritta da Recalcati (2013) in cui il figlio sente il bisogno di andare a cercare il padre assente. Infatti, non è detto che gli adultiscienti non diventano genitori e in quest’ultimo ruolo continuare a comportarsi da adolescenti diventando amici dei propri figli e/o mettendosi in competizione con loro.  E’ interessante,  come riportato dalla Marescotti (2014), un’intervista di un’adolescente apparsa sulla Stampa nel 2004 la quale mette in luce come gli adolescenti vedono e analizzano gli adultiscienti:  “Le amiche sono quelle con cui esco, faccio un giro per i negozi e, se capita, mi lancio in qualche commento su un ragazzo appena passato. Mi sgomenta un po’ sentire alcune delle mie amiche che, quando vanno a fare shopping con le loro mamme, si comprano lo stesso paio di jeans con i brillantini e poi stabiliscono i turni per indossarlo. Non che sia rimproverabile l’atteggiamento di quelle signore che, ancora piuttosto giovani, continuano ad essere attente alla moda, ci mancherebbe. Però, da lì ad uscire con la figlia adolescente in versione Bratz!”.  

Da questo processo non sono esclusi i padri i quali dovrebbero rappresentare la Legge, il luogo delle prescrizioni che rendono possibile il godimento all’interno di un contesto sociale condiviso. Come accennato in precedenza la loro evaporizzazione a seguito, come sostenuto da Recalcati (2013), degli attacchi demolitivi delle rivolte del 1968 e del 1977, non ha ancora trovato una nuova collocazione. L’aver perduto il ruolo verticistico avuto in precedenza non ha permesso ai padri di adattarsi alla nuova società basata su rapporti di tipo orizzontali. Al contrario, il conflitto generazionale che ne è scaturito e la precoce emancipazione dei figli ha comportato una fuga dei padri che a volte si ritrovano ad essere più bambini dei loro figli. Eppure come sostenuto da Zoja (2012) la conflittualità tra padri e figli è funzionale all’individuazione dell’adolescente. A tal proposito, rifacendosi all’Iliade, propone il gesto di Ettore che,  poco prima del duello con Achille,  abbracciando moglie e figlio si accorge che quest’ultimo è spaventato dal suo elmo se lo toglie e lo poggia per terra. In sostanza venendo meno il ruolo autoritaristico avuto in precedenza i padri dovrebbero diventare autorevoli agli occhi dei loro figli.  

Jacopo Bernardini (2013), dal punto di vista sociologico, punta il dito sulla società capitalistica e consumistica la quale promuove l’adultescenza, non più come una fase transitoria, ma una vera propria scelta di vita che si concretizza in una fuga dalle responsabilità. L’adultescenza viene promossa dai media incitando il risveglio del proprio io bambino, proponendo modelli di adulti immaturi al cinema, in TV e su internet e banalizzando i media e i beni di consumo. In effetti, gli adulti regredendo in una fase infantile e/o adolescenziale costituiscono gli archetipi dei perfetti consumatori per via del loro egocentrismo, della loro impulsività e emozionalità. Sono giovani adulti che ancora vivono all’interno del principio del piacere: ogni bisogno deve essere soddisfatto istantaneamente e bisogna comprare tutto quello che la società del consumo ci offre. Di conseguenza, il presente diventa l’unico luogo attraente dove è possibile trarre piacere e dove si può rimanere giovani per sempre.

Cornacchia (2015) conia il termine di forever young per indicare gli adulti con comportamenti da teenager, consumatori infantilizzati, ripiegati su se stessi, spesso incapaci di comportamenti maturi, coerenti e stabili.     Un esempio di questo modello di società lo troviamo nel romanzo Plueto Plata Market (1997) di Aldo Nove. Il personaggio principale Michele, un giovane adulto della stessa generazione dell’autore mammone, confuso, intossicato dalla TV e dalle merendine Mulino Bianco, è immerso in un  flusso irrazionale di pensieri, sensazioni, ed emozioni durante un viaggio ai Caraibi con lo scopo di trovare una moglie che lo accompagni all’Ikea per sperimentare l’apoteosi del consumismo. Inoltre, l’autore nella repubblica dominicana trova altri turisti italiani i quali tendono di sfuggire dallo stress del luogo natio e sentirsi liberi fisicamente e sessualmente. E’ il trionfo del principio del piacere che trova riscontro nella società dell’immediatezza (Kimura, 2005)  la quale determina la forma delle relazioni sociali nella contemporaneità. Cosi come da tempo ha ben compreso la sociologia, soprattutto attraverso le teorie di Baumann, il passaggio dalla società della comunicazione a quella dei social e delle iperconnessioni ha comportato la modificazione del principio di velocità in un nuovo imperativo: la necessità dell’immediatezza.

In una società il cui tratto distintivo è diventata l’estetica, la ricerca della bellezza a tutti i costi, Baumann (2008) ha descritto la relazione tra l’Io e l’Altro come una fornitura di beni e servizi del secondo nei confronti del primo. L’Io non ricerca l’Altro nella sua essenza ed autenticità ma semplicemente per soddisfare le sue esigenze. Come messo in luce da Muscelli (2014), non si è alla ricerca di una conoscenza approfondita dell’Altro, ma l’interesse è semplicemente estetico in cui l’altro è “da assaggiare e sentire” come se fosse un gelato e/o un dolce.  Nella relazione di immediatezza l’altro non è il partner con cui dialogare, a cui rendere conto, di cui sentirsi responsabile, verso cui vergognarsi.

E’ in quest’ambito che Francesco Pira (2020) inserisce il concetto di adultiscenti all’interno della nuova società digitale. E’ in quest’ambito che il rapporto tra le generazioni tende ad una orizzontalità basata sulla competizione tra adulti e adolescenti tendenti al riconoscimento vetrinizzato attraverso i like dei profili social. Quest’ultimi, infatti, sono l’ultima frontiera in cui gli adultiscenti possono rifugiarsi con l’illusione di poter coltivare le loro relazioni senza spostarsi da casa e dal proprio smartphone che diventa l’ultimo ritrovato come rifugio della mente.

Conclusione

Il processo di crescita comporta una necessaria evoluzione non solo individuale ma anche e soprattutto generazionale. Questo comporta il proiettare la propria storia e quella familiare nel futuro come debito che contraiamo nei confronti delle generazioni successive. Tante volte per paure, ansie e ostacoli che si incontrano  lungo il processo evolutivo si tende a vivere in un eterno presente che tiene l’individuo al riparo delle responsabilità che si devono assumere nei confronti degli altri. La lunga rivoluzione e transizione che stiamo vivendo negli ultimi decenni di fatto ha rotto il patto generazionale e sono aumentate a dismisura le spinte antigenerative con la nascita di una nuova fase evolutiva quella degli adultiscenti.

Nel passato non sono mancate descrizioni scientifiche di  sintomi e sindromi che erano da riferire a vere e proprie psicopatologie. Già nel 1920 Jung ha descritto l’archetipo del puer aeternus che indica un individuo adulto rimasto nella psicologia adolescenziale. Una delle idee principali dell’archetipo è la presenza di un “complesso della madre”,  che comporta un disturbo nella personalità del puer: il dongiovannismo. L’analista junghiana Marie-Luise von Franz, allieva di Carl Jung e esponente di spicco della psicologia analitica del XX secolo, spiega che nel dongiovannismo il puer cerca inconsciamente in altre donne la stessa relazione che ha con la madre. Tuttavia, poiché ha creato un’immagine idealizzata e persino divinizzata della madre, nessuna donna risulta essere alla sua altezza, e dopo l’iniziale fascinazione, ne rimane insoddisfatto. (von Franz, 1980, p. 1-2). Il puer è dunque in uno stato chiamato “vita provvisoria”, cioè un atteggiamento di sospensione verso la vita nel quale non si sente ancora arrivato al momento giusto per un cambiamento o un passo importante. Esso teme quindi di ritrovarsi in una situazione dalla quale sia impossibile tornare indietro e sia per questo costretto a rinunciare al proprio potenziale inespresso. Questa neurosi potrebbe causare un “complesso del Messia”, per cui l’individuo nutre dentro di sé l’idea di essere in grado di salvare il mondo ma si convince che ancora non è arrivato il momento. È affascinato dal pericolo e dagli sport estremi e ha il desiderio di volare il più in alto possibile per fuggire dalla realtà e dalla quotidianità. Inoltre, il puer preferisce sport dove non è richiesta né pazienza né allenamento (von Franz, 1980, p. 2- 3). Il puer è inoltre consapevole della transitorietà degli avvenimenti della vita e della loro finitezza. Per spiegare questo concetto, von Franz fa quest’esempio: il puer conosce una donna ma sapendo che alla fine ne rimarrà deluso, non dà tutto quello che può dare ed è sempre pronto a concludere la relazione. Il puer vuole così evitare di “cadere dal cielo”, cioè rimanere disillusi e alla fine patirne le sofferenze, un comportamento che gli impedisce di vivere pienamente (1980, p. 117).

La filosofa Susan Neiman descrive la sindrome dei Peter Pan che è l’emblema dei nostri tempi, perché crescendo si andrebbe a rinunciare alle speranze e ai sogni, e ad accettare i limiti dell’età adulta. Neiman spiega l’immaturità e perché si rimane immaturi rifacendosi a Immanuel Kant: semplicemente si è immaturi perché le persone sono pigre e hanno paura e per rimediare a tutto questo, lasciano che gli altri prendano le decisioni per loro. Infatti, Kant sosteneva che per maturare bisogna fare come i bambini quando imparano a camminare, cioè provare a camminare, per poi cadere e poi rialzarsi con qualche livido finché non ci si riesce del tutto. Se invece il bambino viene tenuto nella carrozzina per evitare i lividi, allora non imparerà mai a camminare. Secondo Neiman, la crescita in adulto riguarda il coraggio: bisogna avere il coraggio di giudicare da soli, di accettare le crepe che farà la vita e di stare in equilibrio tra gli ideali di come il mondo dovrebbe essere e come è veramente (Neiman, 2016, p. 5-12).

L’imparare a camminare però comporta che qualcuno incoraggi e funga da guida indicando la strada senza incidere sulle scelte e sulle mete da raggiungere. Il nodo cruciale del passaggio dalla fase adolescenziale a quella adulta è lo svincolo dalla famigliare di origine che in un mio precedente scritto ho definito come il viaggio dell’eroe. Infatti, nel tragitto da il nido originario al nuovo come tutti gli eroi abbiamo bisogno del mentore ovvero colui che guida, allena e supporta  offrendo spesso doni per incoraggiare a continuare il viaggio. Dobbiamo attraversare la soglia e affrontare il suo guardiano ovvero colui che mette alla prova ed in qualche modo sonda la determinazione dell’eroe a portare a conclusione il viaggio. Per farlo dobbiamo accettare e riconoscere ciò che padri e madri hanno lasciato in eredità e passare aldilà rilanciando l’azione generativa (Cigoli, 2006). La soglia è il luogo dello scontro tra spinte generative e antigenerative: restare al di qua della soglia significa rinunciare alla necessaria evoluzione della specie umana. In questo viaggio dobbiamo affrontare le ombre che rappresentano la parte psicotica dell’eroe, ovvero la parte irrazionale, quella che invita a scappare, a cercare di sfuggire al compito. E’ la parte negativa del sé, ma che, comunque, è indispensabile perché la conoscenza avviene sempre per differenza. Se non ci fossero i cattivi non avrebbero senso neanche i buoni. Essa è la sede dell’odio generazionale di cui occorre cogliere le forme e, al contempo, le strategie per affrontarlo .. l’odio si presenta con il volto della menzogna, dell’iniquità, dell’invidia e della crudele indifferenza. (Cigoli, 2006). Esiodo, nel narrare il mito delle età dell’uomo, colloca l’odio generazionale nell’età del ferro, caratterizzata dalla rottura dei legami tra padri e figli: “ Figli diversi dai padri e padri diversi dai figli………maltratteranno i parenti appena attempati li copriranno di male parole e d’insulti, gli infami senza rispetto divino. Costoro neppure daranno il necessario per dare da vivere ai vecchi che li hanno allevati…sarà abbandonata la terra con le sue strade spaziose, agli uomini il pianto e il dolore. Contro il disastro per gli uomini non ci sarà riparo”.

Svincolarsi dalla famiglia d’origine non vuol dire recidere i legami, ma, semmai, valorizzarli all’interno di una nuova storia generazionale. Le tendenze distruttive non portano verso lo svincolo, ma ad errare all’interno di tendenze malefiche e distruttive. L’ombra rappresenta le tendenze demoniache che si contrappongono al bene. Cigoli (2000) analizzando il pensiero psicoanalitico sul passaggio dannoso fa notare che essi parlano di lutti incistati (cripta), di traumi non elaborati, di telescopage con membri di generazioni lontane, di segreti violenti, di incestuale e cosi via.

L’eroe se vuol veramente svincolarsi deve sconfiggere il male rappresentato da tutte quelle forze che si contrappongono al riconoscimento e all’accettazione della propria storia generazionale. Lo svincolo è un andare avanti non la distruzione del passato.

Abbiamo la necessità di compiere il suddetto viaggio soprattutto in forza del mandato che porta con se ogni vita ovvero quella di doverla rilanciare facendo in modo che le nostre spinte siano da esempio, per la continuazione della specie, alle generazioni successive.

Per tale motivo è preoccupante lo stato di adultiscente poiché interrompe il filo che tiene unito le generazioni tra di loro costituendo un spinta verso l’antigeneratività.  

Prof. Mariano Indelicato, Presidente Pronto Soccorso Psicologico Italia